Siria, così muore un reporter nella città  proibita

Loading

Per le strade circolano poche auto e i pochi passanti che incrociamo camminano in fretta. In molti quartieri non ci sono né acqua né elettricità . A Homs manca perfino il pane. A un incrocio vediamo un’Ape sforacchiata di proiettili e con del sangue rappreso sul parabrezza. Ci dicono che i cecchini hanno sparato prima al padre che era alla guida poi a suo figlio che gli era vicino. Sono rimasti lì tre giorni, prima che gli snipers lasciassero portare via i corpi. Già , la città  è infestata da cecchini. Quei cecchini che ieri avrebbero dovuto proteggere il pullmino carico di giornalisti stranieriErano arrivati nella piazza principale della città  più ostile al regime di Damasco, per raccontare di una manifestazione a favore del presidente Bashar Al Assad. 
E invece, sui reporter sono piovuti due razzi, uccidendo il francese Gilles Jacquier dell’emittente France 2, il primo inviato occidentale a perdere la vita in questa guerra di liberazione. Assieme a Jacquier, sono morte altre sette persone, tutte siriane, ed è rimasto ferito un fotografo olandese. Pur di raggiungere Homs, chiusa al mondo da quasi un anno, Jacquier aveva accettato di partire “embedded” e di raccontare la pagliacciata di un comizio inneggiante ad Assad, in una città  dove il presidente è odiato più del diavolo. Chi ha lanciato i razzi contro il suo pullmino era probabilmente all’oscuro che all’interno vi fossero giornalisti venuti dall’estero. Sempre che a sparare le granate non siano stati i sicari di Damasco. 
In Siria, noi siamo entrati illegalmente l’altra notte, attraversando un valico dalle colline del nord del Libano. Abbiamo percorso una cinquantina di chilometri, prima lungo stradine di campagna, poi, una volta entrati a Homs, attraverso un’infinità  di deviazioni per aggirare i posti di blocchi, i carri armati dell’esercito e le strade presidiate dai cecchini. «Le forze di sicurezza controllano solo le autostrade, ma il resto del Paese è nostro», sosteneva per farci coraggio Youssef, il ragazzo dai capelli lanosi che ci ha scortato dalla frontiera libanese all’ingresso della città , dove siamo stati consegnati, assieme a uno zaino carico di telefoni satellitari, nelle mani di Shadi, un omone con i baffi da tricheco, disertore da tre mesi.
La nostra visita comincia in un ospedale clandestino, nascosto nel seminterrato di un edificio cadente. Clandestino perché è troppo pericoloso portare feriti negli altri ospedali, dove i soldati fanno regolarmente irruzione, strappano gli aghi delle flebo e portano via i manifestanti ricoverati per finirli chissà  dove. Qui, i bambini dormono. Profondamente. Hanno la febbre alta per l’infezione delle ferite da pallottola, e sono tramortiti da antidolorifici forse inadeguati. Hebba, la giovane infermiera che li accudisce dice di aver finito gli antibiotici. Di analgesici ne possiede ancora uno scatolone, ma lei non ha ancora imparato a dosarli. «Perciò pur di non vederli soffrire, preferisco eccedere», spiega. Avevamo letto della guerra contro i bimbi, e dei 350 di loro ammazzati dallo scorso 15 marzo dalle forze di sicurezza, delle altre centinaia stuprati e torturati nei commissariati, delle migliaia gravemente feriti da schegge di mortaio. Ma un’altra cosa è trovarsi davanti a una decina di piccoli con le ossa frantumate dai proiettili, o con moncherini di recentissime amputazioni, o con il pancino fasciato perché centrato da un cecchino.
Anche Shadi ci dà  conferma di questa spaventosa guerra contro i bambini, artatamente organizzata dai generali di Damasco per fiaccare il morale degli adulti. Dice il disertore: «Il capo della nostra brigata ci aveva ordinato di sparare sui più giovani. Appena ho potuto, sono fuggito». Non ci sono medici al capezzale dei bimbi dormienti. Le visite avvengono solo ogni due o tre giorni. «Molti dottori sono stati arrestati per aver curato manifestanti feriti. I medici di Homs vivono nel terrore», spiega Hebba che da sola gestisce coraggiosamente il suo piccolo ospedale clandestino. Le chiediamo come mai non ha paura, lei che è così giovane. «Quattro mesi fa i soldati hanno ammazzato mio padre, che faceva l’avvocato e che un pomeriggio ha voluto unirsi alle proteste», risponde Hebba. «Il suo cadavere ce l’hanno riportato il giorno dopo. Non potrò mai dimenticare le ferite che aveva sulle braccia e sulle gambe. Non so quanti di questi bimbi sopravviveranno. Ma io non li abbandono. Papà  non avrebbe voluto».
Verso mezzogiorno lasciamo l’ospedale. Mentre camminiamo Shadi cerca generosamente di schermarci con la sua mole da eventuali pallottole vaganti. Appostati sui tetti delle case, i cecchini controllano tutte le strade principali e sparano su chiunque le attraversi tra le 4 del pomeriggio fino alle 8 della mattina. «Ma non è gente che guarda l’orologio», dice ancora Shadi. «Molti di loro fanno fuoco tutto il giorno contro i passanti, sia per divertirsi, sia per obbedire a un ordine». Perciò, per evitare il piombo che piove dai tetti, appostati da una parte all’altra dei viali più pericolosi gruppi di uomini si lanciano di tutto: pagnotte, lattine di soda, scatole di scarpe, pezzi di ricambio per le auto, piccole taniche di carburante, che dal lato opposto vengono recuperati con lunghe pertiche uncinate.
Percorriamo un paio di chilometri prima di arrivare davanti al palazzo che ospita la sede di uno dei tanti comitati di oppositori. Nella sede tutte le finestre hanno le serrande abbassate. In un angolo sfrigola uno scanner sintonizzato sulle frequenze radio della polizia. «Diciamo che mi chiamo Wafik», esordisce un omino distinto e interamente calvo. «Le sembro forse un pericoloso terrorista di Al Qaeda? O il capo di una cosca mafiosa? Fino a pochi mesi fa, prima di essere costretto a nascondermi per aver solidarizzato con chi protestava, insegnavo ingegneria. Eppure a Damasco dicono che siamo tutti o kamikaze islamici o assassini della malavita».
Wafik ci informa che martedì una trentina di persone, tra cui una bimba di un anno e un ragazzo di 17, sono state uccise dalla forze di sicurezza. «Vedrà  che oggi il bilancio dei morti sarà  lo stesso, o forse più grave ancora. E domani anche, dopo domani lo stesso, idem la settimana entrante. I soldati di Damasco ci stanno decimando. Loro hanno armi moderne e potenti, noi solo arrugginiti kalashnikov. Ma alla fine l’esercito si schiererà  con noi. Parte di esso lo ha già  fatto».
Quando chiediamo a Wafik di poter assistere alla grande manifestazione di venerdì, lui scuote la testa. «No, non è possibile», dice quasi scusandosi. «Non saremmo in grado di garantire la vostra sicurezza, perché è dopo la grande preghiera che la violenza del regime divampa con più ferocia. E in quei momenti c’è spazio solo per pensare a salvare la propria pelle». Resta la speranza che la morte del collega Gilles Jacquier spinga altri giornalisti a far conoscere al mondo la battaglia siriana per la libertà . E a raccontare in che modo il tallone di Damasco la reprima nel sangue.


Related Articles

IL FARAONE RIMASTO SOLO

Loading

 QUEL che accade in Egitto in queste ore è un disastro e una grande lezione. Da un lato c’è il rischio di un dissenso prolungato.

Budapest chiude migranti e richiedenti asilo nei campi al confine

Loading

Europa. Entrata in vigore ieri la legge ungherese sulla detenzione preventiva. Protestano le ong, ma il premier Órban non è che lo specchio di un’Europa che respinge Bruxelles e le misure comuni sui rifugiati

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment