Taleban: negoziare sì o sì

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FARAH – «Dopo il 2014, quando le truppe straniere si ritireranno, i Taleban sostenuti da Iran e Pakistan continueranno a combattere, questo è sicuro, mentre sarebbe bene che gli altri, i Taleban afghani, si unissero al governo. Ma la vera questione è: lo faranno davvero?». Dietro la sua comoda scrivania al Dipartimento per l’Hajj (il pellegrinaggio alla Mecca), il mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, uno degli uomini più influenti e conosciuti della turbolenta provincia di Farah, al confine con l’Iran, è scettico sulla reale volontà  dei Taleban di sedersi al tavolo negoziale, nonostante i rassicuranti segnali inviati ultimamente dai «turbanti neri».
Quelli che riceve quest’uomo corpulento, dai modi pacati e dallo sguardo sornione, a capo del Consiglio provinciale degli ulema, sono di segno opposto: «Chi fa parte della Shura-e-Ulema è considerato la bocca della propaganda straniera. Se un ribelle mi incontrasse, mi ucciderebbe senza farmi neanche aprire bocca. Anche per andare dall’ufficio a casa sono costretto a prendere diverse misure di sicurezza. E per muovermi nei distretti fuori città , per incontrare la gente e tenere dei discorsi, devo usare i voli degli internazionali. Ho ricevuto molte minacce».
A dispetto delle minacce e dei dubbi, il mawlawi Rohani è uno dei tanti afghani convinti che, naufragata la soluzione militare, sia tempo di pensare al negoziato, ormai sostenuto anche dalla comunità  internazionale, come testimoniano da una parte il via libera dell’amministrazione Obama all’apertura di un ufficio politico dei Taleban in Qatar, e dall’altra i recenti colloqui tra il governo Karzai e un altro dei maggiori gruppi di opposizione, l’Hezb-e-Islami di Guldubbin Hekmatyar, molto radicato nel nord-est del paese. Per Rohani il negoziato va però costruito con cura, perché «si tratta di un passaggio delicato, e ogni errore può pregiudicarne i risultati. Bisogna stabilire le giuste condizioni, e soprattutto serve portarlo avanti con i veri Taleban, non con quelli finti, come quel bottegaio pakistano che qualche tempo fa ha preso in giro i servizi segreti americani, fingendosi un rappresentante ufficiale della Shura di Quetta del mullah Omar».
Anche per Farid Ehsas, già  giornalista e attivista, ora funzionario del Dipartimento della riforma amministrativa di Farah, «è tempo di percorrere altre vie, è tempo di negoziare, visto che la guerra finora non ha dato alcun frutto. D’altronde, lo pensavo già  dieci anni fa: all’inizio del governo transitorio, i Taleban erano molto deboli. Eppure, sostenevo che fosse un errore escluderli dalla prima conferenza di Bonn, quella del 2001. Molti allora mi criticarono. Per loro i Taleban erano stati sconfitti per sempre, e in Afghanistan non c’era più posto per personaggi come Hekmatyar. Oggi molti si sono ricreduti». E sono tanti anche coloro che considerano uno sbaglio l’aver escluso troppo prematuramente i talebani dalla seconda conferenza internazionale di Bonn, che si è tenuta il 5 dicembre 2011 e che avrebbe potuto rappresentare l’occasione per discutere del negoziato di fronte a una platea pubblica: «escluderli dalla conferenza di Bonn e dal negoziato vuol dire assicurarsi che la crisi afghana continuerà  a lungo – sostiene Ahmad Qureishi, chief reporter per la provincia di Herat dell’agenzia di informazione Pajhwok -. Perché è vero che in parte i Taleban sono legati al Pakistan, ma c’è anche gente onesta. Non tutti sono estremisti. à‰ un movimento che al suo interno include posizioni e opinioni molto diverse. Occorre distinguere l’esercito taleban dalla leadership e dagli ideologi, che vanno marginalizzati, combattuti. E allo stesso tempo bisogna discutere con quanti combattono a causa del governo corrotto e inaffidabile, o per le interferenze di altri paesi», conclude Qureishi, per il quale «occorre trovare gli strumenti per portare anche i Taleban nel governo».
Quanto alla legittimità  di dar vita a un futuro governo di «ampia coalizione», che includa al suo interno tutte le principali forze politiche del paese, compresa quella taleban, non tutti si dicono d’accordo. Tra quelli che tengono a definire con chiarezza i termini di un eventuale negoziato, c’è il governatore della provincia di Herat, Daoud Saba: «Quando parliamo di riconciliazione, a quali Taleban ci riferiamo? Dico no al dialogo con chi pensa di usare le stragi, le uccisioni, con chi vuole terrorizzare la popolazione. Dico sì al dialogo con quanti pensano che esiste una costituzione che va rispettata, e che i problemi possono essere affrontati con un negoziato franco. La costituzione è chiara, ed è altrettanto chiaro il tipo di governo che deve avere questo paese. Se qualcuno, ora fuori dal governo, vuole entrare a far parte a tutti gli effetti della società  afghana, è benvenuto, ma l’idea che questo possa avvenire attraverso l’uso della forza è una pura illusione. à‰ escluso», conclude categorico il governatore Saba.
Ancora più netta è la posizione di Maria Bashir, procuratore capo per la provincia di Herat, la prima donna a occupare una posizione simile in tutto l’Afghanistan, che giudica inaffidabili i Taleban come interlocutori politici: «In quanto donna – mi spiega nel suo ufficio di Herat – , non sono d’accordo con la riconciliazione. Certo, il negoziato è utile per ottenere un governo più forte e una maggiore sicurezza. Ma non c’è alcuna garanzia che una volta che i Taleban riacquistino potere non si comportino come in precedenza. Vorrei ricordare che, all’epoca in cui loro governavano, le donne non godevano di alcun diritto. Per questo, spero che il nostro esercito diventi forte abbastanza da sconfiggere i Taleban, e non seguirei la strada del negoziato per portarli al governo. Per sconfiggerli, l’aspetto più importante è il rafforzamento del nostro sistema di diritto. Una volta fatto, perderanno gran parte della loro influenza».
Come Maria Bashir, molte altre donne esprimono forti riserve sull’opportunità  di dialogare con i Taleban, che vantano al loro attivo un tale numero di efferatezze da consigliare molta prudenza, prima di accordare loro fiducia: «Capisco che si parli di riconciliazione, di dialogo con i “ribelli”, ma non vorrei che ci si dimenticasse troppo in fretta degli abusi compiuti dai Taleban e di quelli che potrebbero commettere in futuro – argomenta la giovane attivista Khadeleh Khorsand -. Chi ci garantisce che non li compiano di nuovo, una volta che le truppe straniere saranno andate via, una volta che saranno tornati al potere? E poi, prima di parlare di riconciliazione, bisognerebbe pensare alla sicurezza di tutti i giorni, che è peggiorata, negli ultimi anni», aggiunge.
Sulla sicurezza, sembra pensarla diversamente il mawlawi Rohani, che tiene a rivendicare il suo ruolo di «mullah politico, come tutti i veri mullah afghani», e «gli anni passati a combattere i russi». Per lui, infatti, a Farah la situazione della sicurezza è migliorata: «Diversi anni fa, quando sono arrivato qui come rappresentante della Shura-e-ulema, ero costretto a tenere sempre il mio kalashnikov sotto la scrivania. Ora, come vede, posso anche farne a meno», conclude sornione accarezzandosi la barba.


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