Terza pagina, recensioni, elzeviri Così la cultura conquistò i giornali

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Tra le pubblicazioni della Fondazione «Corriere della Sera» va ora segnalato il compatto, elegante, candido volume su La critica letteraria e il «Corriere della Sera», a cura e con introduzione di Bruno Pischedda, mentre Paolo Di Stefano ne ha steso la prefazione (pp. CIV-1694, 60). Il volume riguarda il periodo 1876-1945, mentre un volume successivo, in preparazione, coprirà  il periodo 1945-1992: si va dalla fondazione del giornale alla fine della pagina letteraria, intesa nel suo senso più tradizionale. Prima di entrare nel merito, va segnalata l’intelligente struttura espositiva: i panorami storici di Di Stefano e di Pischedda sono utilmente integrati dalle informate note biografiche su ognuno dei 32 giornalisti o pubblicisti di cui si presentano i testi, e infine da un fittissimo indice dei nomi citati (35 pagine). Parlare sin dal titolo di critica letteraria è già  una presa di posizione importante. Perché significa insistere sull’analisi e sulla valutazione più che sul «rito» dell’accesso di nuove opere letterarie al quadro dell’attività  culturale del momento, che è lo scopo immediato della critica militante. Ne consegue che, anche se giustamente il volume è più attento alla vicenda giornalistica, esso abbozza pure una storia della critica, tanto più credibile quanto più avveduta sia stata la scelta dei collaboratori del giornale.
Sebbene il titolo del volume li ometta elegantemente, va detto che la priorità  effettiva nel discorso storico andrebbe a termini come «elzeviro», adottato proprio in quegli anni per definire un tipo di articolo e la sua disposizione nel complesso del giornale, o come «terza pagina», che allude appunto a un’apposita pagina del quotidiano. Occorre poi essere al corrente di termini tecnici che designano parti di ogni pagina: «spalla», «taglio basso», «risvolto», «giro», sui quali informa Di Stefano.
La vicenda di circa settant’anni di storia del «Corriere» si sintetizza nei cambiamenti di prestigio, di evidenza e di specializzazione tematica di ognuna di quelle parti del giornale. Si potrebbero indicare come fasi di sviluppo o, viceversa, di regressione lo spostarsi della pagina letteraria da p. 3 a p. 5, 7, 9, il suo ampliarsi o restringersi. Anche importante l’iniziativa, spesso adottata e spesso abbandonata, di creare sezioni apposite del giornale esplicitamente dedicate alla letteratura o, più in generale, alla cultura: «Corriere dei libri», «Corriere letterario», «Cultura e spettacolo», ecc.
Ma naturalmente si può approfondire molto di più. La cultura ha avuto i suoi incrementi e le sue svolte, e se anche è primaria, per un quotidiano, la linea politica, è però inevitabile che un giornale ambisca pure ad avere una sua linea culturale. Che consisterà  complessivamente in una particolare concezione del sapere, ma anche in scelte precise tra i movimenti letterari, e in complesso tra gli autori della contemporaneità : di questo è responsabile il direttore, che a volte però delega un coordinatore specifico. Si nota così il favore per i poeti parnassiani e simbolisti, sino a Mallarmé, e, tra gli italiani, per Carducci, Pascoli e soprattutto d’Annunzio; nella prosa, il favore per Zola, come prima per il verismo. Per contro, scarsa la simpatia per Svevo e Proust, distacco moralistico dalla Scapigliatura, etc. Naturalmente sono scelte con implicazioni politiche (ben abbozzate da Pischedda), come risulta evidente dall’apertura, non senza ostacoli, ai nuovi scrittori americani durante l’autarchia fascista.
I periodi più neri della storia del «Corriere» sono prima il fascismo, poi l’arrembaggio della P2. Quest’ultimo s’incontrerà  inevitabilmente nel secondo volume, mentre il primo ha una lunga presenza in questo. Il potere fascista si manifestava apertamente coll’imporre un direttore o un altro; più sottilmente, con disposizioni e suggerimenti sull’operato di singoli giornalisti, e persino sulle loro tematiche. Il potere s’esprimeva a volte in modo diretto, ma spesso con la voce di membri interni al giornale, che ne erano zelanti portavoce.
Il lettore potrà  farsi un’idea specialmente leggendo le note biografiche sui giornalisti. Su cui azzarderei due riflessioni. La prima è che, in tempi di emergenza, si dà  il caso che uno stesso giornalista cambi propensioni e atteggiamenti, anche se ci sono tra i nostri figure ammirevoli come il liberale Ettore Janni, firmatario del manifesto antifascista di Croce ed esule in Svizzera dopo l’8 settembre, in seguito a una taglia posta su di lui dai nazisti. Altrettanto coerente Giuseppe Antonio Borgese. La seconda è che, in Italia e non solo nei giornali, le sanzioni a quelli più compromessi con il regime furono minime e di brevissima durata; minima o nulla anche la riprovazione della collettività . E sappiamo tutti come finirono le cosiddette epurazioni.
Insomma, questo volume è ricco d’insegnamenti di ogni genere, anche sul lavoro redazionale. Persino Attilio Momigliano venne ammonito ad aggiungere riferimenti di attualità  in un suo articolo su Parini, e il grande critico si adattò alla correzione. Ma il fascino di queste pagine, che si leggono con estremo interesse, sta nel darci uno spaccato dell’attività  critica in Italia nel settantennio sotto osservazione, compresa la crescente curiosità  comparatistica, portata da Pica, da Placci, e al punto più alto da Borgese. Che un quotidiano possa rappresentare degnamente una critica in grande sviluppo come quella italiana di allora non è poco. Importanti anche certe aperture a metodi che poi non ebbero seguito, come il darwinismo di U.A. Canello, pure fondatore in Italia della filologia testuale alla tedesca, e di Capuana.
Uno dei cambiamenti attuati nell’area della critica è la maggiore apertura del «Corriere», nel secondo dopoguerra, ai professori universitari, nel caso nostro a Borgese, a Momigliano, a De Robertis. Questo potrebbe suggerire confronti tra i critici-giornalisti prima dominanti, e spesso di eccellente e vasta preparazione, e i giornalisti-professori, portatori di una cultura più disciplinata, con in mezzo personaggi come Cecchi o Pancrazi, che usarono le pagine del «Corriere» come un’autorevole cattedra. Del resto, è chiaro che un giornale come il «Corriere» non ambiva solo a una funzione informativa, ma anche, e ampiamente, formativa; e le sue scelte costituirono uno dei «codici» ideali (anche se contestabili) entro i quali si tende a sistemare gli scrittori di un Paese.


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