Tutti contro «l’imbarazzo Gingrich»

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DUNEDIN (Florida) — Va molto probabilmente incontro alla sconfitta, nelle primarie repubblicane di oggi in Florida, la ribellione di Newt Gingrich. È bastata appena una settimana perché l’ex speaker della Camera vedesse quasi del tutto esaurita la forza propulsiva che lo aveva portato al trionfo in South Carolina. Spiazzato dalla svolta aggressiva di Mitt Romney, bombardato da un’ondata di spot televisivi negativi e delegittimato dalla massiccia mobilitazione dell’establishment del partito in favore di quest’ultimo, Gingrich ha combattuto nelle ultime ore una disperata campagna di sopravvivenza. Deciso in ogni caso a profilarsi come campione del movimento populista conservatore e portare la sua sfida in altri Stati.
Un sondaggio della Quinnipiac University, diffuso ieri, dà  a Romney il 43% delle preferenze di voto contro il 29% di Gingrich: un vantaggio a prova di errore statistico, che conferma l’efficacia della controffensiva montata dall’ex governatore del Massachusetts e dai suoi alleati.
I soldi ancora una volta hanno fatto la differenza: nell’ultima settimana, la campagna di Romney e i Super PAC (i Comitati di azione politica) che lo fiancheggiano hanno speso quasi 7 milioni di dollari di spot televisivi, tutti mirati a colpire la credibilità  dell’avversario, che ha potuto contrapporre solo un debole muro difensivo di 2,2 milioni di dollari.
Segno del panico che la prospettiva di una candidatura Gingrich semina tra i leader repubblicani, è stata poi la discesa in campo di figure di primo piano del partito a sostegno di Romney, dal governatore del New Jersey, Chris Christie, all’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty. Si è mosso perfino Bob Dole, candidato alla presidenza nel 1996 sconfitto da Bill Clinton, ricordando che «tutti gli spot negativi confezionati allora dai democratici per contrastarmi usavano come soggetto Gingrich» e le sue imprese politicamente suicide al Congresso. Di più, Gingrich in Florida è stato marcato a vista da congressisti repubblicani, favorevoli a Romney, che hanno infiltrato i suoi comizi o le conferenze stampa, smontandone in diretta gli argomenti davanti a elettori e giornalisti. Una tecnica che ha spesso innervosito o stancato l’ex speaker, costringendolo a reagire, perdendo di vista il messaggio.
Il resto lo ha fatto il candidato mormone, con buona pace dell’insegnamento cristiano, dimostrando di possedere la cattiveria necessaria per demolire un avversario: «Gingrich è un leader fallito. Non abbiamo bisogno di uno che sappia parlare o dice cose condivisibili, ma non ha dimostrato di essere una guida capace», ha detto ieri mattina a Dunedin.
Messo sotto pressione, Gingrich non ha risparmiato colpi. Ha definito «calunniosa» e «indecente» la campagna di Romney per screditarlo, rovesciando su di lui l’accusa di mancanza di carattere: «Non si può essere presidente degli Stati Uniti se non si è onesti e sinceri con il popolo americano. La verità  è che Romney è un progressista del Massachusetts e io un vero conservatore. Come farebbe a differenziarsi da Barack Obama?», ha detto domenica sera a Tampa. In suo aiuto, è accorsa l’ex candidata alla vicepresidenza e beniamina della destra, Sarah Palin.
Il sangue fratricida di queste primarie repubblicane avrà  sicuramente pesanti conseguenze nel lungo periodo. La prevedibile vittoria di Romney in Florida e quelle annunciate nei prossimi appuntamenti di febbraio in Nevada, Michigan e Arizona, non gli basteranno a chiudere subito la partita in suo favore. L’invito a resistere di Palin, secondo cui Romney non può battere Obama a novembre, segnala che la spaccatura del partito conservatore tra establishment moderato e ala ultraconservatrice insurrezionale è destinata a rimanere profonda.


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