Bourdieu, attrezzi preziosi cui attingere senza riverenze

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«Ciò che è in gioco oggi è la riconquista della democrazia contro la tecnocrazia: è necessario farla finita con la tirannia degli “esperti” stile Banca Mondiale o Fondo Monetario Internazionale che impongono senza discussione i verdetti del nuovo Leviatano, i “mercati finanziari” che non intendono negoziare ma “spiegare”; è necessario rompere con la nuova fede nell’inevitabilità  storica professata dai teorici del liberalismo; è necessario inventare le nuove forme di lavoro politico collettivo in grado di prendere atto dei vincoli, soprattutto economici (questo potrebbe essere il compito degli esperti), ma per combatterli e, in caso non ci si riesca, per neutralizzarli». Queste parole non sono state scritte oggi, ma ben 14 anni fa, nel 1998. Quanto poco è cambiato sul fondo! E quanto si è incancrenita la situazione: la tirannia non è più imposta ai paesi del Terzo mondo da lontane entità  come Banca Mondiale o Fondo Monetario, ma a nazioni che fino a ieri erano del «Primo mondo» da un’istituzione che dovremmo aver voluto noi, la Banca centrale europea.
Il male era già  acuto quando Pierre Bourdieu scriveva questa diagnosi, solo che ora siamo a una fase terminale. A ricordarci il persistere e il radicarsi di questa tendenza di lunga durata e insieme l’acutezza dello sguardo del sociologo francese scomparso dieci anni fa, è David Swartz della Boston University nel saggio «Sociologia e politica: le forme dell’impegno politico di Bourdieu» nel volume collettivo Bourdieu dopo Bourdieu curato circa un anno fa da Gabriella Paolucci dell’università  di Firenze per Utet (pp. 316, euro 26), impresa collettiva – cui hanno contribuito alcuni tra i maggiori studiosi del filosofo francese – che fa da utile pendant alla recente e agile Introduzione a Bourdieu scritta dalla stessa Paolucci per Laterza (pp. 200, euro 14). 
In un certo senso i due libri hanno la stessa ossatura: analizzano la formazione filosofica di Bourdieu, sviscerano i suoi concetti chiave (dominio, campo, habitus, violenza simbolica, le tre forme di capitale: economico, culturale e sociale), per concludersi con una breve storia della (non) ricezione di Bourdieu in Italia, inospitalità  che contrasta con la sua crescente fama e influenza negli altri paesi: non a caso l’ultimo saggio del volume collettivo, quello di Angelo Salento, s’intitola «Un ospite di scarso riguardo: Pierre Bourdieu in Italia».
Solo che l’Introduzione si vuole appunto breve ed emana da una prospettiva unica, mentre il Bourdieu dopo Bourdieu getta uno sguardo per così dire prismatico sull’immane opera di questo pensatore. Così il concetto di habitus è analizzato da Gisèle Sapiro che oggi dirige quel Centre éuropéen de sociologie et de science politique fondato da Bourdieu nel 1968 quando aveva rotto con Raymond Aron e si era dimesso da segretario del Centre de sociologie européenne che quest’ultimo aveva fondato grazie all’appoggio della Fondazione Ford. Mentre è la bourdesiana Anna Boschetti che discute «La nozione di campo: Genesi, funzioni, usi, abusi, prospettive». Su questo concetto, se è lecito fare un appunto, nessuno degli autori si sofferma sull’origine scientifica della nozione di «campo»: campo elettromagnetico, per esempio, che invece ha una rilevanza decisiva e che probabilmente deriva in Bourdieu dai suoi studi di filosofia della scienza con Gaston Bachelard e Guy Canguilhem.
Marco Santoro dell’università  di Bologna affronta le tre specie di capitale usate da Bourdieu e, attraverso di esse, il complesso rapporto con il marxismo («’Con Marx, senza Marx’. Sul capitale di Bourdieu»). Nelle conversazioni a voce Bourdieu era molto più marxista di quanto volessa apparire in pubblico. Del filosofo di Treviri condivideva la spregiudicatezza e soprattutto il materialismo radicale ma non meccanicistico e non positivistico (non engelsiano, per intenderci). Ma da buon marxista, Bourdieu voleva andare oltre Marx, affrontare le aporie che quest’ultimo aveva lasciato irrisolte: in un certo senso gran parte dell’opera di Bourdieu è consistita nell’articolare (e quindi nel superare) la rozzezza della dicotomia struttura/superstruttura. Marx quindi, ma riletto con l’aiuto soprattutto di Durkheim, di Weber, e anche di pensatori come Ernst Cassirer (come spiega bene Paolucci nel primo capitolo della sua Introduzione). Pigliare ciò che serve, buttare ciò che fa zavorra, condire a volontà  con altri strumenti concettuali, ecco un modo marxista di usare il marxismo: come una cassetta degli attrezzi, ma senza riverenze.
Più variegato è il panorama che emerge sull’eredità  di Bourdieu: sembra che sulla sua scia si moltiplichino soprattutto le ricerche di sociologia della cultura, della letteratura e dell’arte, mentre – sostiene per esempio Alessandro Mongili nel suo «L’idea di campo scientifico e la sua fortuna negli studi sulla tecnoscienza» – in sociologia della scienza quest’idea ha avuto molta sfortuna. Mongili la attribuisce a un residuo di positivismo. Io invece sono un grande ammiratore dell’ultimo libro di Bourdieu, Science de la science et réfléxivitè (2001), che trovo straordinario proprio nell’aspetto che Mongili, e in genere i nuovi sociologi della scienza criticano, e cioè per il doppio registro che la scienza impone a chi la studia, come prodotto storico di una data temperie, che però produce risultati che si presentano come astorici (la legge di gravitazione nasce alla fine del ‘600, ma non è legata alla sua epoca come lo è un quadro barocco o un adagio di Albinoni). I nuovi sociologi della scienza tendono invece ad appiattirla alle altre attività  umane, senza coglierne la specificità  che ne fa qualcosa di diverso (non migliore, ma diverso) da una sonata o una poltrona Chippendale. Forse dipende dal fatto che i sociologi sono appunto sociologi e vedono la ricerca scientifica dall’esterno e non hanno mai provato sulla propria pelle quell’esperienza di assoluta limitatezza ma di contemporanea, smisurata universalità  che Max Weber descrive così bene: «Chi non possiede la capacità  d’indossare, per così dire, paraocchi e di persuadersi intimamente che il destino della sua anima dipende appunto dall’esattezza di questa, proprio questa congettura rispetto a quel passo di quel manoscritto, se ne rimanga lontano dalla scienza. Altrimenti non avrà  fatto dentro di sé ciò che si può chiamare ‘l’esperienza vissuta’ della scienza» (La scienza come professione). 
Nella Science de la science entrano in azione tutti i concetti chiave bourdesiani. Soprattutto il modo subdolo con cui nel campo scientifico viene esercitata la violenza simbolica, un concetto chiave su cui a ragione insiste Paolucci nel Bourdieu dopo Bourdieu e nella sua Introduzione, tanto da farle parlare di «una sociologia del dominio». Nella parte finale dell’Introduzione, Paolucci affronta le critiche che sono state rivolte a Bourdieu, di determinismo, di olismo e infine la critica femminista a La domination masculine (1998). Ma in realtà  la critica che più mi preoccupa – e che non vedo formulata da nessuno di questi autori – è che la teoria di Bourdieu presenta una sorta di circolarità : detto altrimenti, è una teoria assai difficile da falsificare perché qualunque contro-esempio può essere «ricucinato» con un differente uso dei vari concetti. È questa la ragione per cui viene da suggerire ai giovani di fare con Bourdieu quanto Bourdieu ha fatto con Marx, di considerarlo un kit da cui prendere solo gli strumenti di cui uno ha bisogno, senza doversi accollare tutta la cassetta. E si vedrà  che quegli attrezzi sono incredibilmente utili.


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