Dal re a Wall Street il cerchio che si chiude

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«smontiamolo il mito black bloc, chi se ne frega del mito?», mi dice Uckmar, che si presenta con il solo pseudonimo, giovane donna dall’aria mite, rigorosamente in nero. «Siamo una minoranza. A Genova 2001 non eravamo più di trenta. Non ci si organizza, non ci si conosce neanche, ci si incontra già  mascherati. E non è la violenza che interessa, interessa il gesto simbolico». E gli altri? «Guarda, c’è di tutto, anche chi non è arrabbiato», non spiega che cosa intende dire, ma precisa: «Non ha senso mettere paletti, la nostra forza è proprio nella permeabilità  dei confini, tutto ciò che è limitrofo è fertile, sono le contaminazioni che rompono la gabbia». Ma tu che cos’è che vuoi dalla vita? Mi guarda. «Cavarmela. Tu cosa sai fare con le tue mani?» Sorride, si congeda dal luogo neutro dove mi ha concesso cinque minuti.
Titoli fiammeggianti, immagini di un’Europa “che brucia” – Atene, Londra e forse fra poco Berlino, la val Susa – ipotesi di cospirazione, sortite come quella del capo della polizia Manganelli: «Gli anarchici sono pronti a uccidere». Le agenzie di formazione dell’immaginario ritrovano toni antichi e l’uso della parola «terrore» si ritrae dal demanio inflazionato dell’islamofobia per tornare a connotare quello che molti considerano il suo territorio naturale: la regione – sfuggente ma saldamente presente nel repertorio degli allarmisti – dell’anarchia. Del resto quando il ministro degli Interni inglese Blunkett, dopo il 2001 spiegava la «Guerra al terrore», citava come precedente gli attentati di fine ‘800 e – come ricorda lo storico Alex Butterworth – a proposito di Al Qaeda si parlò di «islamo-anarchismo» sottolineneando le letture bakuniniane dello sceicco Al Zawahiri. La minaccia sovversiva, dopo le grandi ideologie novecentesche e i fondamentalismi religiosi, sembra tornare alle origini, un cerchio che si chiude. I danni alle reti del tav, le scritte sui muri, i disordini nelle piazze europee come prodromi di una nuova «onda di terrore anarchica», i black bloc come evoluzione di una cultura bicentenaria. Sarà  vero? «Rispetto alla tradizione anarchica – spiega Mauro De Cortes, libraio dell'”Utopia” di Milano e militante del Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli e Valpreda – una discontinuità  sta nella logica di avanguardia. Fra noi non c’è spazio per l’assalto al Palazzo d’Inverno. L’anarchia non è mai stata un movimento nel senso strutturato del marxismo, ma sempre un punto di incontro fra individualità  differenti. E il nodo è il primato della responsabilità  personale. Che non esclude scontro, anche duro ma sempre finalizzato a forgiare l’immaginario, a far pensare, a unire menti critiche». Oggi molte azioni di piazza tolgono consenso anziché crearlo, ma non era così anche per i regicidi ottocenteschi? «Direi di no. In chi attentava alla vita di un tiranno c’era la volontà  di isolare un elemento simbolico e porlo alla riflessione universale. L’orizzonte dell’oppressione allora era militare e non, come oggi, economico. L’anarchico che sparava al re assomigliava più al no global che oggi boicotta la Cocacola che a un terrorista contemporaneo». Mentre mi parla il suo cellulare squilla di continuo: «Scusa, è che stiamo cercando di sistemare un vecchio compagno non autosufficiente che è rimasto solo». Sogghigna: «Puoi batterti per i diritti, ma il compito quotidiano è rattoppare quello che una volta si chiamava “stato sociale”». Welfare in diretta, cioè responsabilità  personale, cooperazione, solidarietà : niente di più anarchico. «Mentre non c’è niente di meno anarchico che bruciare una biblioteca, come è avvenuto ad Atene», nota De Cortes. È vero che l’anarchia trova uno dei suoi principali nuclei concettuali e ideologici nel campo della pedagogia, nel pensiero e nell’azione educativa di personaggi come Colin Ward, Marcello Bernardi, Bertrand Russell, Ivan Illich. Ed è del resto fra i nomi che affollano il catalogo di una biblioteca che l’Idea ha vissuto la sua parabola: fra gente come Coleridge, Tolstoj, Wilde, Orwell, Camus, Pissarro, Breton, Vigo, Bunuel, fino a Marc Augé, Paul Feyerabend, Henri Laborit, per fare solo qualche nome. Eppure dopo la stagione anarcosindacalista e la guerra di Spagna non sembra più aver dato vita a movimenti di massa: «Probabilmente – dice De Cortes – perché schiacciata dalla concretezza simbolica dell’Urss. Ma correnti libertarie sono sempre riaffiorate come nella Carrara del dopoguerra. E forse se Adriano Olivetti fosse vissuto più a lungo…». Ma ha senso chiamare «anarchiche» le piazze di oggi, che cosa hanno in comune Syntagma e Zuccotti Park? «Sono piazze diverse: in Germania e in Grecia domina qualcosa di simile alla nostra Autonomia Operaia che ha adottato le bandiere rossonere per simboleggiare l’unità  delle componenti marxiste e anarchiche nella lotta al regime dei colonnelli e al nazismo. In Spagna i militanti della Cnt (il sindacato anarchico) si mescolano agli Indignados, mentre in Inghilterra una ridotta presenza legata a figure come Russell, Ward, Illich, resa radicale dall’opposizione alla Thatcher, è cosa diversa dagli incendi dell’estate 2011 nati con la chiusura dei centri sociali: lì i saccheggiatori non erano anarchici, ma ex utenti del welfare, anche figli della buona borghesia». 
Stefano Laffi, sociologo che ha studiato la composizione dei movimenti antagonisti mi parla della galassia italiana delle case occupate: «Fra i più giovani non c’è formazione ideologica, non esiste un decalogo condiviso su che cosa voglia dire essere anarchici. Non c’è un Indignatevi! (il manifesto di Stephan Hessel, ndr) dell’anarchia». Ma forse qualcuno di quei ragazzi si è letto scaricandolo dalla rete L’insurrection qui vient, il pamphlet uscito per la prima volta in Francia nel 2007 e firmato da un fantomatico “Comitato invisibile” – invisibile proprio come le facce che nelle manifestazioni di Madrid o New York si celano dietro il sorriso di Anonymous. «Il legame sta comunque nell’insoddisfazione per le condizioni materiali di esistenza e nella consapevolezza che il sistema di opportunità  proposto è una fregatura: non c’è lavoro, molti vivono per strada, non hanno accesso a un sistema di diritti di cittadinanza». Niente in comune con i benestanti del ’68 insofferenti del modello borghese, ma qual è il tratto «anarchico» di queste vite? «L’etica dell’autonomia responsabile. Il voler essere artefici della propria esistenza. È gente che ha rifiutato la dipendenza dal lavoro, ha accettato la mobilità  nell’abitare, ha scelto tratti di marginalità , ma che sa come campare, che cosa fare durante il giorno, che cosa volere. Che cosa vogliono? Differenziarsi da chi, come noi, non è abituato a ragionare in termini di autosufficienza. Aspettano il peggio e sono attrezzati a sopravvivere, più di qualunque cittadino delle metropoli postmoderne». Ognuno per sé? «No, in una forma di comunità  autosufficiente itinerante, abituata a scambiarsi saperi e mestieri, e a dividere momenti di festa. In qualche modo la cultura del rave li rappresenta: è l’opposto di un immaginario verticale di spettacolo. Non c’è star, non c’è staff, ci sono regole solidali: non si fa commercio, si aiuta chi sta male, non c’è spazio per molestie sessuali». È davvero così? «È così che nasce, almeno. Poi le cose cambiano: troppe sostanze, troppa indifferenza. Cresce la dimensione commerciale. Internet ha corrotto i meccanismi di riconoscimento della comunità : ora arriva chiunque possa accedere alle informazioni in rete». I «limitrofi», anche qui. Anarchici, raver, ultras, indignati: si assomigliano questi popoli? «Hanno questo in comune: sei incazzato con il mondo e sempre più ti accorgi che hai ragione di esserlo. Ogni giorno rinnova il repertorio di elementi oggettivi che dimostrano che la vita che ti è offerta non ha speranze né prospettive».
Nessun complotto globale, quindi, e l’analogia con il passato è forse solo nella percezione ostile: già  un secolo fa il controllo, lo schiacciamento e la demonizzazione della «setta scellerata» creò – anziché chiudere – lo spazio per l’azione violenta di quelli che Uckmar chiama «limitrofi», e stese un velo di piombo su una cultura che con cent’anni di anticipo si batteva per alcuni capisaldi della società  aperta, come scrive Butterworth: «Emancipazione femminile, sostegno statale per la cura e l’educazione, previdenza, localismo, sostenibilità , federalismo». A proposito, De Cortes ha trovato la casa che cercava per il compagno infermo.


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