Disoccupati record giovani al 31%

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Oltre 2,2 milioni di persone non hanno un impiego. Senza la cassa integrazione sarebbero già  3 milioni. Perdono il posto soprattutto i maschi. I contratti precari hanno peggiorato la situazione tra i 15 e i 24 anniNon va. E andrà  peggio. L’occupazione in Europa è inchiodata, e a pagare il prezzo più alto sono soprattutto gli uomini e i giovani. La fotografia rilasciata dall’Eurostat – e dall’Istat per la parte che riguarda il nostro paese – è assolutamente impietosa. E i numeri vanno letti in controluce, per capire la tendenza reale. Partiamo dal quadro europeo. Il tasso di disoccupazione ufficiale, in tutto il 2011, è salito dell’0,4% al livello della zona euro; così come nell’intera Unione a 27 paesi. Ma la distribuzione non è affatto omogenea. In Germania (vedi l’articolo a parte) tutto sembra esser rimasto stabile, con un tasso di disoccupazione di appena il 5,5%. Così come in Francia (9,9). Le cadute più disastrose vengono invece registrate – non a caso – in Grecia (dove si passa dal 13,9 al 19,3% di disoccupati), Cipro (dal 6,1 al 9,3) e Spagna, dove si registra un drammatico 22,9% di senza lavoro.
L’Italia – record di senza lavoro dal 2004 a oggi – è un caso a parte e richiede un briciolo di «analisi». Il dato più eclatante riguarda la fascia d’età  dai 15 ai 24 anni (studenti esclusi, ovviamente), dove ben 31 ragazzi su cento risultano disoccupati. Qui ci sarebbe addirittura un lievissimo miglioramento (-0,2), ma sono in aumento gli «scoraggiati», che il lavoro non lo cercano neppure. Secondo le elaborazioni della Cgia di Mestre, comunque, il tasso «reale» (tenendo conto di sfiduciati, ecc) sarebbe del 38,7%. 
Tutta la retorica di governo e dei partiti dovrebbe sfasciarsi dalla vergogna, davanti a questi numeri, perché è evidente che più precarietà  («meno lacci e lacciuoli») non produce affatto più occupazione, ma solo minori salari e, quindi, meno consumi-crescita-nuova occupazione. 
Anche i dati provenienti dalle grandi imprese – come fa notare Fulvio Fammoni, membro della segreteria nazionale Cgil – contribuiscono a smontare falsi ideologici sull’art. 18 e dintorni: qui «i licenziamenti sono cresciuti in 6 anni del 35%». Facile la conclusione: «qualcuno può ancora sostenere che c’è qualche problema di flessibilità  in uscita?». 
Ma sono i dati assoluti a smontare molti teoremi. Gli occupati, a dicembre, sono rimasti sostanzialmente stabili: 22.900.000, appena 23.000 in meno dell’anno precedente. Ma è il risultato di un movimento niente affatto indolore. I disoccupati sono infatti aumentati di 221mila unità  (163mila uomini e 58mila donne), portando la cifra totale e 2.243.000 persone (un milione di donne, il resto maschi); ovvero un aumento del 10,9% nel numero di senza lavoro, che diventa addirittura un +15,1 per la componente maschile. Per le magie della statistica, però, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato «solo» dello 0,8%. Dalla Cgil arriva una prima precisazione: queste cifre sono «al lordo» della cassa integrazione (i lavoratori in cig sono considerati a tutti gli effetti «occupati»), altrimenti saremmo già  a 3 milioni. 
Ma il dato più contraddittorio è quello relativo agli «inattivi», ovvero alle persone tra i 15 e i 64 anni che non lavorano. Sono quasi 15 milioni, ma risultano diminuiti di 186mila unità . Com’è possibile, se i disoccupati sono aumentati? La spiegazione è nello squilibrio tra popolazione anziana e giovanile: ci sono molti più anziani che escono dal novero di quanti sono considerati «in età  da lavoro» che non giovani che vi entrano. La recente riforma delle pensioni costringerà  anche l’Istat a cambiare – fin dai prossimi rapporti mensili – i criteri statistici: dovranno infatti esser calcolati come «in età  lavorativa» anche gli anziani fino a 66 anni. Un effetto paradossale, ma non troppo, sarà  dunque l’aumento vertiginoso della disoccupazione e anche del tasso di «inattivi». Ma non si tratta solo di un brutto scherzo statistico: quelle persone «in più», infatti, saranno senza un lavoro ed anche senza una pensione. 
Una preoccupazione in più – se si devono prendere per buone le sue dichiarazioni – per il ministro del welfare, Elsa Fornero. Che ancora ieri, però, ha puntato tutte le sue chance sulla «riforma del mercato del lavoro». Ovvero su una riduzione drastica delle tutele, quindi sull’aumento della ricattabilità  individuale dei lavoratori e, in definitiva, dell’intensità  della prestazione o del prolungamento dell’orario di lavoro. Come dire: punta sul rafforzamento dei fattori che riducono l’occupazione. Quando usciremo da questa follia sarà  sempre troppo tardi.


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