Enzo Sellerio Addio al fotografo-intellettuale L’immagine del mondo riflessa nella sua Sicilia

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Enzo Sellerio chiese perdono, un giorno, per la sua Sicilia così poco sicula. «Manca la lupara, ma anche la tonnara e la zolfara…». Mancano i fichi d’india, magari di cartapesta come quello che zu’ Natalì, fotografo palermitano di gran scorza, portava nel bagagliaio dell’auto per piazzarlo di fianco al cadavere del morto ammazzato di mafia, «perché senza fico d’india i giornali poi non mi comprano la foto». Quella Sicilia da esportazione, da cartina delle arance o da romanzo criminale, Sellerio l’editore, Sellerio il fotografo, Sellerio l’intellettuale non la spacciò mai, né con le sue immagini, né con i suoi libri.
E non perché non vedesse le piaghe millenarie della sua terra, la violenza incistata nella sua città , al contrario, forse perché ne vedeva troppe. «Io non abito più a Palermo, io abito a casa mia», diceva amareggiato, negli ultimi tempi, a chi lo passava a salutare al terzo piano di un palazzo né bello né brutto, un appartamento stracolmo di vetri dipinti, sua passione di collezionista, dove si era ritirato per «riciclare anche la mia vecchiaia», e dove si è spento ieri, per un attacco cardiaco, dopo 88 anni vissuti da «siciliano divergente», nomade a Parigi, Londra, New York e in fondo anche a Palermo. 
Una delusione temperata, colta, malinconica e saggia, da principe di Salina, è stata del resto la sua compagna di viaggio d’una vita. Le ideologie di gioventù sommerse dal realismo socialista, il rinascimento culturale siciliano assediato dal malaffare; e la stessa fotografia, passione mai rinnegata, però abbandonata bruscamente, salvo fulminei ritorni di fiamma, quando arrivò il ’68 e con esso la percezione di una violenza incombente, di un cambio d’epoca. Quella violenza che gli ripugnava, che tentò di esorcizzare con una delle sue immagini più celebri, una fila di bambini della Kalsa che giocano al plotone d’esecuzione, assurta a icona negativa della Sicilia delle mattanze mafiose, per la disperazione del suo autore: «Avrei mai fotografato una fucilazione vera? Non credo proprio, registrai quella scena perché era soltanto un gioco, e il gioco è la forma in cui la vita dovrebbe esse vissuta». Bambini, tanti bambini nelle foto di Sellerio.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo ricorda giustamente come un intellettuale a tutto tondo, «testimone e protagonista dei movimenti più innovativi della cultura siciliana». Il mondo della cultura lo piange come un grande fotografo, e lo fu, per Il Mondo di Pannunzio come per Vogue o per Fortune, eppure, a ben guardare, fotografò per meno di tre decenni, quasi una deviazione nel suo lungo itinerario di animatore di intelligenze. Cominciò tardi, dopo i trent’anni, dopo la laurea, dopo l’inizio di una carriera da docente universitario di Diritto pubblico, insomma quando la sua vita procedeva già  sui binari prescritti dalla sua condizione sociale, la borghesia colta e progressista palermitana. A deragliarlo, forse un po’ di sangue slavo nelle vene, quello della madre bielorussa Andres. 
Fotografo quasi per caso, voleva invece scrivere: nel ’47 aveva fondato una rivistina ambiziosa, Il Ciclope (nome profetico: anche la fotocamera ha un occhio solo). Spirito militante, nel ’52 Paese Sera lo mandò a esplorare la Spagna franchista e lui, assieme ai reportage firmati per prudenza con lo pseudonimo Angelo Andrasi, mandò indietro qualche fotografia presa con una macchinetta turistica. Aveva un amico pittore, Bruno Caruso, a cui piacquero molto: lo costrinse a continuare a usare quello che Guttuso avrebbe definito “l’occhio filosofico»” Sellerio aveva guardato bene Cartier-Bresson, che a sua volta lo apprezzerà  molto, ma diluì il suo “momento decisivo” nel Mediterraneo indolente, nel suo carattere “procrastinatore e cavilloso” ma anche splendidamente umorista. Il suo primo reportage, però, fu anche la sua prima delusione: doveva essere il corredo fotografico del libro Banditi a Partinico di Danilo Dolci, fu rifiutato e uscì solo dopo alcuni anni, nel ’55, su Cinema Nuovo di Aristarco, con il titolo “Borgo di Dio”: ma esplose come il capolavoro del neorealismo fotografico italiano. Nel ’61 la rivista tedesca Du gli chiese un grande reportage su Palermo, e gli uscirono allora dalla Leica dei capolavori che fondevano surrealismo, lirismo e ironia. Fu la consacrazione internazionale, quella che gli fece girare il mondo, a frequentare e ritrarre Arthur Miller, Christo, Saul Steinberg.
Fotografo artista? Lui correggeva “fotografo d’intelligenza”, con l’accento sulla seconda parola. Che alla fine pretese i suoi diritti. Fotografare, per Sellerio, era un gesto letterario: «Un fotografo è uno scrittore che si esprime per mezzo di immagini». E la Sicilia è sempre stata terra di scrittori fotografi, Verga, Capuana, De Roberto. Ma la fotografia come mestiere cominciava a logorarlo, fisicamente e anche culturalmente: alternare reportage di strada e documentazione d’arte e architettura gli pareva come mescolare «tranches de vie e tranci di cassata», e alla fine l’impresa di realizzare un libro sui castelli e i monasteri di Sicilia lo trascinò, incitato da Sciascia stesso e dal poeta Ignazio Buttitta, nell’avventura della casa editrice che porterà  il suo nome: «la trappola che doveva allontanarmi dalla fotografia». 
Trappola per la fotografia, dono alla Sicilia. In casa dei Sellerio, Enzo e la moglie Elvira, vera anima e colonna portante della casa editrice (anche se lei, ironicamente, ricordava che, come donna, «il mio compito era servire i caffè») si incontrarono per anni gli intellettuali che tentavano di «togliere il complesso di inferiorità » alla Sicilia, di restituire a Palermo la dignità  di una città  della cultura: Sciascia, Consolo, Bufalino, Renda, Scimé… 
Le strade e le vite di Enzo ed Elvira com’è noto si separarono nell’83, a lui restò la tranche editoriale dedicata all’arte e una casa piena di oggetti e immagini, reperti di una Sicilia sperata e sognata e ancora irrealizzata, «un’isola tutta mia, per difendermi dalle brutture, dal consumismo, dal grigiore».


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