Eternit, 16 anni ai proprietari “Sapevano che l’amianto uccide”

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TORINO – «Trentamila euro per Gianoglio Luca, Gianoglio Andrea, Gianoglio Piera, congiunti Bai, 60mila euro per Romana Blasotti, vedova Pavesi…». Nell’aula 1 del tribunale di Torino risuonano i nomi della Spoon River dell’amianto: gente uccisa dal mesotelioma pluerico o dalla asbestosi dentro e fuori le fabbriche di Casale, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Ammazzati nel corso degli anni dal «polverino», bianco e letale, con cui si lastricavano strade, isolavano case, avvolgendo interi paesi in una nuve velenosa. Otto anni dopo l’inizio dell’inchiesta del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello le vittime di quella strage silenziosa hanno finalmente giustizia. Sono le 13.20 di ieri quando Giuseppe Casalbore, presidente della Corte, legge la sentenza che chiude il processo iniziato il 10 dicembre 2009, il più grande per disastro ambientale mai intentato in Europa. Ed è una sentenza di condanna: sedici anni per Ernest Stephan Schmidheiny, 65 anni, magnate svizzero dell’amianto e per Jean Louis Marie Ghislain De Cartier De Marchienne, 91 anni, riconosciuti colpevoli di disastro doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Per la lettura completa del dispositivo di condanna Casalbore impiega più di tre ore, costretto ad elencare le provvisionali per le parti civili, 95 milioni di euro che la corte assegna a 850 familiari delle vittime (dai 30 ai 35 mila euro, solo per Romana Blasotti, la presidentessa dell’Associazione vittime dell’amianto che oltre al marito ha perso figlia, nipote, sorella e una cugina sono previsti 60mila euro) alla Regione Piemonte (20 milioni) al comune di Casale (25milioni) al comune di Cavagnolo (4 milioni) all’Inail (15 milioni) ai sindacati (100mila per ogni sigla) e all’Associazione Vittime dell’Amianto (100mila euro). Altre 1897 parti civili dovranno ricorrere ad un processo civile per essere risarcite.
Casalbore legge con voce monotona il lungo elenco e nell’aula risuonano i nomi di chi è morto respirando il “polverino”. Qualcuno piange, altri si abbracciano. Molti rischiano il richiamo del presidente della Corte che ricorda più volte: «Le sentenze si ascoltano in silenzio e in piedi». Raffaele Guariniello, il magistrato che per otto anni ha lottato contro due fantasmi, i due magnati dell’Amianto che mai sono comparsi in aula (solo Thomas Schmidheiny, il fratello di Stephan ha testimoniato per spiegare come il padre lasciò a lui le imprese del cemento e all’imputato quelle dell’amianto), ha gli occhi lucidi dall’emozione. «Sto sognando ad occhi aperti – dirà  più tardi – queste sentenza dimostra che avere giustizia è possibile» E Giancarlo Caselli, il procuratore capo che ha voluto essere in aula con Guariniello e i pm Colace e Panelli, sottolinea: «Per anni anche per i magistrati le morti del lavoro erano fatalità , dopo Thyssen e Eternit, è nata una nuova cultura sulla sicurezza nel lavoro». Gli avvocati degli imputati parlano di sentenza ingiusta e sperano nella prescrizione. I loro assistiti sono stati condannati per omissione dolosa per tutti e quattro gli stabilimenti italiani ma la prescrizione ha eliminato l’accusa di disastro doloso per Rubiera e Bagnoli. Lì non è stato possibile dimostrare che l’amianto ha causato anche un disastro ambientale esterno. Come è accaduto a Casale dove l’amianto ha ucciso ovunque: dentro e fuori la fabbrica chiusa nel 1986. E dove continua ad uccidere. Nel 2011 il mesotelioma pleurico se n’è portato via altri cinquantotto. Nessuno di loro aveva mai lavorato in quello stabilimento messo su nel 1907 i cui padroni erano così «buoni» da trasformare gli scarti della lavorazione in giocattoli da regalare ai bimbi. E che negli ultimi anni di produzione erano tanto attenti alla salute dei dipendenti da inserire nelle buste paga raccomandazioni contro il fumo perché «cancerogeno»


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