I Pirati del Sinai

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NAKHL (PENISOLA DEL SINAI) – Il pericolo è quel filo di sabbia che si alza e si staglia sull’orizzonte: significa che ci hanno individuato e non è una buona notizia». Guida come se fosse a un rally Abudi, l’autista beduino che ha accettato l’ingaggio di attraversare in macchina la Penisola del Sinai, entrando dal tunnel sottomarino Ahmed Hamdi a Suez, fino a Taba sul Mar Rosso. Quasi 500 chilometri di strade e piste all’interno di una sterminata penisola desertica popolata quasi solo da nomadi. Una “Tortuga” secondo i servizi segreti occidentali, dove vecchie e nuove tensioni fra le popolazioni beduine si impastano con il caos egiziano, dove la “mafia araba” ha messo salde radici legando le gang criminali ai gruppi che si ispirano ad Al Qaeda e sognano la nascita di un emirato islamico, mentre i generali della giunta al Cairo sono occupati a garantirsi un futuro al sicuro dai prossimi processi contro l’ancien régime. E dove, soprattutto, da un paio di mesi sono tornati nel mirino i turisti occidentali più avventurosi che sfidano le dune, che dai resort sulle spiagge affrontano escursioni verso le montagne e finiscono nelle mani delle bande che si contendono il territorio. Trascurate e discriminate le 12 tribù beduine che popolano il Sinai, spesso reciprocamente diverse, sono abituate a vivere ai margini. Per anni hanno fatto affidamento sul contrabbando come mezzo di sopravvivenza in un territorio con poche altre opzioni economiche. Nel 2007, quando Israele e Egitto hanno imposto il blocco economico alla confinante Striscia di Gaza dopo che Hamas ha preso il potere, i ricavi sono saliti alle stelle, un’industria che vale milioni di dollari al giorno. Il Nord di questo “triangolo di sabbia” è percorso da clan e tribù dedite al contrabbando di ogni merce che si muovono su piste e vecchie rotte carovaniere solo a loro conosciute. Portano droga, armi, lavatrici, forni a microonde, automobili, matite, medicine e ogni altro genere di necessità , c’è un mercato di quasi due milioni di persone sotto assedio a Gaza da soddisfare. La rete di tunnel saldamente nelle mani della mafia araba sotto i 13 chilometri di confine con la Striscia di Gaza si occupa di farla avere dall’altra parte con guadagni milionari. Da un anno, dalla caduta di Mubarak, il Sinai è diventato terra di nessuno.
Ci sono verdeggianti appezzamenti di marijuana che ormai crescono a cielo aperto lungo le strade a sud del deserto montuoso centrale, dove la polizia egiziana mantiene una presenza soffusa. Autobotti attraversano il deserto per portare l’acqua per l’irrigazione, altri camion caricano le balle essiccate pronte per essere trasferite da qualche altra parte. Talvolta le piste usate dai contrabbandieri e dall’esercito si intrecciano; «ma i militari non hanno tempo per noi – sentenzia Abdallah, contrabbandiere dichiarato – una volta quel traffico lì era nelle mani dei Tarabin (una delle tribù beduine, ndr) ma adesso è un giro d’affari troppo grande per un clan solo». El Arish, il capoluogo del nord Sinai ma anche Rafah – la città  egiziana sul confine con Gaza – vivono una sorta di boom edilizio, circolano soldi, molti soldi. Negli ultimi due anni la zona di confine ha accumulato una serie di palazzi con i tetti ornati stile pagoda giapponese che sono il segno distintivo dei contrabbandieri arabi con una certa classe. Nei vicoli polverosi di Rafah, Kia, Toyota, Mercedes e altre auto di lusso – molte ancora con le targhe libiche attaccate – aspettano di essere contrabbandate attraverso i tunnel. Quasi 10mila ne sono entrate nella Striscia in sei mesi. «In una notte sola ne hanno fatte passare 131 dallo stesso tunnel», racconta la leggenda metropolitana in città . 
Ma è il traffico d’armi che favorisce l’instabilità  dell’area e preoccupa Israele. Carichi di lanciarazzi a spalla, razzi, munizioni, missili a medio raggio provenienti dalla Libia sono stati intercettati dalla polizia egiziana. Ventimila missili, dice Sameh Seif Al-Yazal, generale egiziano in congedo e esperto di terrorismo, sono finiti recentemente nella Striscia di Gaza. Alcuni gruppi palestinesi avrebbero stretto un accordo con i libici per comprare armi pesanti in grado di colpire più efficacemente Israele.
Nel cuore di queste dune di sabbia svetta con i suoi più di duemila metri lo Jabal Musa, il monte di Mosè in lingua araba. Il Monte Sinai è una zona impervia e ostile all’uomo, dominata da due tribù beduine, l’esercito egiziano vi si avventura raramente. L’ultima volta in dicembre con l’Operazione Aquila, che non ha disturbato né i contrabbandieri né i terroristi. Fra le creste di Jabal Musa hanno trovato rifugio quasi 2mila miliziani jihadisti-contrabbandieri, gli integralisti egiziani hanno trovato qui il loro santuario. Il loro numero si è infoltito dopo le fughe in massa dalle carceri egiziane dopo la rivoluzione del gennaio 2011. 
Nel Sud bande di beduini Rashaida gestiscono il traffico di esseri umani, migliaia migranti che dall’Africa, con un flusso continuo cercano una via di fuga verso Nord, verso il Medio Oriente e l’Europa. Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, delle ong e degli attivisti dei diritti umani, il dramma di questi profughi – taglieggiati, ricattati, depredati, tenuti in ostaggio – è uscito dal silenzio in cui si consumava. Clan beduini, gang criminali palestinesi e gruppi armati gestiscono questo traffico. Il fondamentalismo jihadistico si autofinanzia con attività  criminali, spesso leader dei movimenti qaedisti e capi mafia sono le stesse persone. Scrive il “Washington Institute for Middle East Policy” nel suo ultimo rapporto che «bande di contrabbandieri si sono convertite al terrorismo, gruppi beduini aderiscono al salafismo, si sono legate a gruppi palestinesi della Striscia come Hams, Jihad Islamica, Comitati di resistenza e l’Esercito dell’Islam del clan Daghmush». I Daghmush – soprannominati i “Sopranos di Gaza” – sono sempre stati attivi nel contrabbando, nel 2009 alcuni membri della Famiglia hanno dato vita a un gruppo salafita che nella Striscia si scontrato spesso con la polizia di Hamas.
Il confine con l’Egitto, i 240 chilometri di deserto – da Gaza sul Mediterraneo fino a Eilat sul Mar Rosso – sono diventati l’incubo strategico per Israele. Una frontiera di sabbia vasta e ampia, quasi impossibile da controllare per un esercito. Per questo in gran fretta sta costruendo un Muro – come quello in Cisgiordania – nel tentativo di contenere l’immigrazione clandestina, solo nel 2011 sono entrati in Israele 13.500 clandestini, ma la conseguente perdita di controllo del Sinai ha fatto scattare l’allarme terrorismo. L’attacco terrorista nell’agosto 2011 – otto gli israeliani uccisi lungo la Highway 12 che corre lungo il confine – è stato poi l’atto decisivo per dare al muro del Sinai una urgenza «di carattere nazionale e strategico». Questo confine era considerato il più sicuro, garantito dal trattato di pace di Camp David che regge da più di trent’anni, ma adesso i pericoli maggiori per Israele vengono da qui. Se questo confine non viene “sigillato”, Israele dovrà  prepararsi ad affrontare nuovi attacchi contro Eilat – la località  balneare più frequentata in Israele – perché il Sinai è diventata la base per infiltrare terroristi palestinesi.
Dalla metà  degli anni Ottanta i beduini che possedevano appezzamenti di terra lungo la costa del Mar Rosso, bramati da tutti, hanno perduto il controllo delle loro terre, espropriate dal governo centrale e vendute agli operatori alberghieri. Oggi nel caos egiziano qualcuno chiede kalashnikov alla mano ciò che gli è stato tolto, l’industria del turismo è entrata nel mirino. Come dimostra quanto è successo all’Aqua Sun, un resort a 30 chilometri da Nuweiba assaltato da una banda beduina che ha chiesto mezzo milione di dollari per lasciare la struttura – che era stata minata – intatta. All’inizio di gennaio una banda di rapinatori ha assaltato l’hotel Hilton di Taba per svaligiarne la gioielleria. A Sharm el Sheikh un turista francese è stato ucciso durante una sparatoria all’inizio del mese di gennaio, due turisti americani sono stati rapiti la scorsa settimana mentre salivano su un bus verso il Monastero di Santa Caterina. Tre coreani l’altro giorno: ore di paura prima di essere rilasciati nella notte senza denaro. 
È sera quando il fuoristrada si ferma davanti alla sbarra della frontiera egiziana. Davanti c’è il valico israeliano di Eilat e si intravedono le luci dei grandi alberghi, un braccio di mare largo due miglia ci separa da Aqaba che è dall’altra parte del Golfo. «Inshallah, è arrivato Mister – dice Abudi l’autista – siamo stati fortunati».


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