Il rigore e i sacrifici servono se cresce anche la competitività 

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Su consumi e investimenti il peso del «credit crunch»L’inverno della recessione è sceso sull’Europa, ma non è grigio e freddo per tutti allo stesso modo. Nella zona monetaria la gelata dell’economia si è diffusa in dosi diseguali fra i Paesi, obbligando gli italiani a chiedersi se questo fenomeno che li penalizza sia casuale o esistano invece cause riconoscibili.
Sul carattere a macchia di leopardo di quella che Mario Draghi definì una lieve recessione non ci sono dubbi, proprio perché non per tutti è effettivamente «lieve». Negli ultimi tre mesi dell’anno scorso la Francia (a sorpresa) è addirittura cresciuta dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti e dell’1,7% sul totale del 2011; la Germania invece ha sì messo a segno una contrazione trimestrale dello 0,2% (meno del previsto), ma ha chiuso l’anno con un’espansione del 3%. Il calo del prodotto interno lordo spagnolo nel trimestre di fine anno è stato poi dello 0,3% rispetto al periodo luglio-settembre, ma quello registrato dall’Italia è quasi senza confronti in Europa: meno 0,7%, una caduta di quasi il 3% in proiezione annuale. L’Istat per ora indica che è stato un trimestre negativo per l’industria, stazionario per il settore dei servizi, positivo per l’agricoltura. Niente nei dati che aiuti a capire davvero perché i valori dell’Italia escono più deboli, o perché nel Paese la recessione stia accelerando: anche nei tre mesi precedenti c’era stata una contrazione, ma meno violenta. 
Non che queste stime siano sentenze inappellabili. Ogni tre mesi i dati della crescita vengono scrutati come fossero una scienza esatta ma l’economista Tyler Cowen, della George Mason University, spiega che non è così. Per esempio in Francia la spesa pubblica pesa sul Pil più che altrove e normalmente il suo apporto alla crescita viene stimato in base al costo, non al fatturato come per le attività  private. Ma costruire un ponte verso il nulla o duplicare una strada esistente non contribuisce certo al benessere di una nazione tanto quanto una spesa pubblica utile. Più si spende, meno la spesa dello Stato è efficace. Stessa cautela occorre sul settore sanitario: in Italia pesa sul Pil circa la metà  che negli Stati Uniti e contribuisce molto meno alla «crescita»; eppure gli italiani hanno un’aspettativa di vita più alta e una mortalità  infantile più bassa rispetto agli americani, dunque la sanità  presumibilmente funziona (in media) meglio. 
Il calcolo meccanico del Pil non è tutto. Ma i numeri sull’Italia qualche indizio sui problemi del Paese lo offrono lo stesso. Chiara Corsa e Loredana Federico di Unicredit ritengono per esempio che alla fine dello scorso anno abbiano pesato soprattutto la riluttanza delle famiglie a fare grossi acquisti e, ancora di più, delle imprese a investire. Dietro questi comportamenti si intravede non solo la scarsa fiducia, ma un fenomeno spesso dimenticato nei modelli di Bruxelles o del Fondo monetario: l’illiquidità  dell’economia. Il crollo del valore dei titoli di Stato e l’indebolimento conseguente delle banche che li detengono hanno portato a un credit crunch che ora emerge anche nei dati del Pil. L’accelerazione della recessione si spiega in buona parte così, ma ciò non basta a rassicurare del tutto sul futuro.
Questa stretta al credito potrebbe essere in parte superata con il calo degli spread e i prestiti straordinari della Banca centrale europea al sistema creditizio. A quel punto, resterà  un interrogativo centrale per capire come e quando l’Italia emergerà  dalla recessione: quanto pesa l’austerità ? In Grecia, che ha corretto il deficit di circa 8 punti di Pil dall’inizio della crisi (al netto degli interessi), l’impatto è stato disastroso: l’aumento delle tasse e il taglio delle spese, imposto a ritmi drastici, ha distrutto la domanda interna e portato a un crollo del Pil di 13 punti percentuali in tre anni. Non è però affatto scontato che l’Italia corra un rischio uguale perché il Paese è in grado di approfittare molto meglio della domanda dall’estero, non penalizzata dall’austerità  nazionale. Il fatturato dell’export in Grecia contribuisce circa al 10% dell’economia, in Germania per il 50%, in Italia e in Francia per il 26%. 
Anche in pieno rigore sui conti pubblici l’Italia può sostenersi — in parte — se le sue imprese di moda, design, meccanica, food and beverage, troveranno nuovi clienti in Cina, Brasile o negli Stati Uniti. Di qui l’importanza di essere competitivi. La Grecia si è buttata nell’austerità  senza impostare riforme per diventarlo, e il suo costo del lavoro per unità  di prodotto — misura della (bassa) produttività  â€” è salito del 26% in dieci anni contro il 5% della Germania. In Italia quel dato in dieci anni è salito anche di più, del 30%. Ora, per trovare l’uscita dal labirinto della recessione, andrà  recuperato questo ritardo.


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