Il secco no di Mosca con minaccia di veto

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«Il Consiglio di sicurezza non approverà  mai l’uso della forza contro la Siria, ve lo garantisco io»: così ha detto ieri il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov in una conferenza stampa a Sidney, dove si trova in visita e dove ha evitato per 24 ore di farsi trovare dalla collega Usa Hillary Clinton, furiosamente determinata a ottenere il via libera del Consiglio di sicurezza dell’Onu al «piano di pace» della Lega araba. Un piano contro il quale Mosca appare determinata a usare il suo potere di veto, se fosse necessario.
«Se l’opposizione si rifiuta di sedersi al tavolo con il regime, qual è l’alternativa: bombardare? Questo lo abbiamo già  visto in passato». Per Lavrov, non è cosa neanche chiedere le dimissioni di Bashar al Assad: «Noi non lo faremo. Non è nostro compito cambiare i governi degli altri paesi», ha aggiunto con malignità , tornando poi a insistere sulla posizione classica di Mosca che vede come unica strada quella di un negoziato tra il regime di Assad e l’opposizione, con una mediazione internazionale ma senza sanzioni né tantomeno interventi militari esterni.
La Russia sembra dunque l’ultima trincea da superare prima che il mondo a guida occidentale si butti giù per la china di una nuova guerra – molto più pericolosa e imprevedibile anche dell’ultima, quella di Libia. Lo ha detto in termini molto franchi il ministro degli esteri francese Alain Juppé, uno dei più interventisti, vista l’imminenza elettorale in Francia: «Siamo bloccati da un certo numero di stati, principalmente la Russia, che ostacola ogni risoluzione sulla Siria». Per la verità  anche la Cina non sembra particolarmente entusiasta del piano della Lega araba, ma la diplomazia cinese preferisce per ora restare in seconda linea, lasciando il lavoro principale – molto scomodo rispetto a un’opinione pubblica mondiale che non ha una gran simpatia per il regime siriano – ai russi.
I quali devono barcamenarsi come possono tra un impopolare (anche nella Russia stessa) veto alle risoluzioni Onu e la necessità  di non perdere comunque uno dei loro migliori clienti: ancora Lavrov ieri ha voluto precisare che le armi che Mosca sta continuando a vendere a Damasco non servono per combattere contro i rivoltosi o per reprimere la popolazione civile. E i timori russi in questa fase della storia mediorientale sono fortissimi non solo rispetto alla Siria ma anche rispetto all’Iran – una crisi che non è slegata da quella siriana (anzi, ne è in qualche modo alla radice) e che allarga le sue propaggini un po’ ovunque.
Il capitolo più eccentrico di questo scenario di crisi generale è forse quello di cui si chiacchiera dopo la visita a Washington del presidente georgiano Mikheil Saakashvili, nei giorni scorsi. Ufficialmente solo una visita di cortesia (Saakashvili era stato due volte a trovare Bush, ma non aveva mai incontrato Obama), secondo diversi media arabi aveva in realtà  il vero scopo di offrire agli Usa una base d’appoggio per un attacco all’Iran da nord, e ricevere in cambio un rafforzamento del proprio sistema difensivo in chiave anti-russa e nuove garanzie su un futuro ingresso nella Nato. Fonti georgiane hanno alimentato queste voci, peraltro basate su ipotesi irreali: se a Washington non sarà  difficile dare a Tbilisi un po’ di soldi e di tecnologia militare, non è pensabile invece che a breve termine gli americani possano usare delle basi sul suolo georgiano per attaccare l’Iran. Tra Georgia e Iran non c’è infatti confine diretto; per colpire l’Iran partendo dalla Georgia gli aerei dovrebbero usare lo spazio aereo di Armenia o Azerbaigian (due paesi che per diversi motivi non lo consentirebbero) oppure quello della Turchia, che a sua volta non sembra propensa a favorire un’azione di forza. Inoltre tutta l’area caucasica è sotto strettissima sorveglianza dei sistemi di ricognizione e allarme della Russia (che ha basi radar avanzate in Armenia, in Azerbaigian e in pratica nella stessa Georgia, nelle mini-repubbliche secessioniste di Abkhazia e SudOssezia): a meno di svolte politiche imprevedibili, Mosca informerebbe immediatamente Tehran di ogni movimento militare americano nella zona.


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