Teheran, la battaglia finale

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I tempi stringono. Le scadenze si avvicinano. Il calendario nucleare iraniano riduce sempre più lo spazio di manovra di chi vuole impedire al regime teocratico di dotarsi di armi atomiche. Ormai da settimane, da mesi, nelle principali cancellerie e nelle intelligence militari più impegnate si fanno e rifanno i calcoli tesi a precisare il momento critico in cui il programma nucleare di Teheran potrà  resistere, quindi sopravvivere, agli attacchi aerei. Bisogna agire prima che questo accada. Secondo le stime di Gerusalemme mancano circa nove mesi al periodo in cui quel programma non potrà  più essere fermato da un intervento israeliano. Una fase cruciale, poiché disponendo di una massa critica di uranio di qualità  militare sufficiente, l’Iran sarà  in grado di realizzare la bomba atomica abbastanza in fretta, senza ostacoli. Grazie ai loro mezzi più potenti gli Stati Uniti disporrebbero ancora di una quindicina di mesi. Il segretario alla Difesa, Leon Panetta, è stato più prudente, ha parlato esplicitamente di un anno. I dirigenti di Teheran continuano a negare che il loro programma sia destinato a produrre armi nucleari, ma al di là  della loro credibilità , resta il fatto che essi saranno presto nelle condizioni di avere la bomba. Basandosi su questi calcoli, confortati nell’insieme dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica, molti esperti occidentali pensano alla prossima estate mediorientale come a una stagione ricca di drammatiche sorprese.

(segue dalla copertina) Essa deve apparire infatti non solo la stagione più propizia ma anche l’ultima occasione a quei dirigenti israeliani che ritengono inevitabile distruggereo ritardare il progetto iraniano. Oltre alle insidiose scadenze nucleari, nell’estate Barack Obama sarà  nel pieno della campagna elettorale, e, sottoposto a forti pressioni, dovrà  rinunciare a opporsi all’intervento che considera avventato. Non potrà  sottrarsi alla solidarietà  verso l’alleato Israele, impegnato “in una lotta per la sopravvivenza”, sostenuto dal candidato repubblicano e accompagnato da una consistente simpatia popolare. Questa logica porta a credere che, se ci sarà , l’operazione militare avverrà  prima del 6 novembre, giorno del voto americano.

Il rinvio di parecchi mesi (fino all’estate) delle manovre israeloamericane, programmate da un pezzo e dedicate alla difesa antimissilistica, ha naturalmente moltiplicato i sospetti. Nessuno ha creduto che quelle manovre siano state ritardate per motivi non strategici ma economici.

Spostate, guarda caso, da aprile al prossimo semestre. All’estate.

Israele ha appena aumentato le spese per la difesa. Il nuovo calendario delle manovre, dice Amos Harel, esperto militare del quotidiano Haaretz, rende credibile lo scenario secondo il quale Israele potrebbe lanciare i suoi attacchi durante le esercitazioni. La presenza americana in Israele, con imponenti batterie di missili antimissili, garantirebbe da eventuali reazioni di Teheran.

Non tutto può essere comunque chiaro, esposto alla luce del sole. Un’operazione come quella iranianaè basata sulla sorpresa. Se i tempi stringonoe si moltiplicano le pressioni in favore di un’azione militare, al tempo stesso non si spengono le obiezioni all’interno dello stesso governo di Gerusalemme. Senza contare i dubbi espressi da autorevoli esponenti dell’intelligencee dell’esercito (ed esempio l’ex capo del Mossad, Meir Dagan, e l’ex capo di stato maggiore, Gabi Ashkenazi) sull’opportunità  di scatenare un’offensiva ricca di conseguenze nell’intera regione. E i dubbi si estendono anche al supposto stato avanzato delle ricerche nucleari iraniane. I due principali falchi, il primo ministro Netanyahue il ministro della difesa Barak, ne devono tener conto. Come non possono trascurare il fatto che soltanto poco più del 40 per cento dei loro connazionali appoggerebbe finora un intervento. L’orgoglio israeliano, che esige di garantire la sicurezza del paese con le proprie forze, senza dipendere dai pur potenti e fedeli alleati, mette in secondo piano, almeno in apparenza, le perplessità  degli americani.I quali continuano a interrogarsi sulle reali intenzioni di Gerusalemme. Il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore americano, e Leon Panetta, capo del Pentagono, sono arrivati da Washington con la speranza di ottenere l’impegno a non agire senza l’accordo degli Stati Uniti o senza avvisarli preventivamente. Entrambi sono ripartitia mani vuote.

Dopo avere interrogato numerosi responsabili politici e altrettanti capi militarie dell’intelligence, Ronen Bergman è arrivato alla conclusione che Israele colpirà  certamente, nell’anno in corso, le centrali iraniane.E sempre secondo lui, autore di Secret War With Iran e analista politico-militare del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, gli Stati Uniti potrebbero alla fine intervenire in qualche modoa fianco di Israele. Ma non ci conta troppo. Immersi in un’atmosfera mista di timore e di tenacia, gli israeliani pensano che dovranno cavarsela da soli. Bergman rivela i sentimenti suscitati in Israele dalla prospettiva di una bomba atomica iraniana e anche dalle conseguenze di un’azione militare per impedirne la nascita.

Ehud Barak precisa i tre criteri sui quali si deve basare l’azione di Israele. Anzitutto la sua efficacia.È in grado Israele di infliggere all’Iran severi danni, al punto da ritardare sul serio il progetto nucleare? E può il paese difendersi militarmente e il popolo resistere a un inevitabile contrattacco? Un’altra questione riguarda la necessità  o meno, per sferrare l’attacco, di avere un aperto o tacito aiuto, in particolare dagli Stati Uniti. L’ultimo essenziale interrogativo chiede se quella che si presentaè l’ultima opportunità  per un attacco, dopo che sono state tentate altre strade per contenere la minaccia nucleare. Per la prima volta, dalla metà  degli anni Novanta quando è emerso il problema atomico iraniano, i leader più autorevoli di Israele rispondono “sì” ai tre quesiti, vale a dire affermano che l’operazione militare è possibile.

Per anni Israele e gli Stati Uniti hanno tentato tante strade per dissuadere l’Iran. Hanno cercato di spezzare i legami tra l’Iran e la Russia che aveva costruito un reattore nucleare nel sito chiamato Bushehr,e contribuito in modo determinante al programma missilistico. Alla finei russi hanno promesso che avrebbero fatto il possibile per rallentare la ricerca iraniana e hanno garantito che essa non era comunque in grado di produrre uranio o plutonio abbastanza raffinato per fare armi atomiche. Ma il padre della bomba pakistana, Abdul Kadeer Khan, ha sostituito i russi e ha creato la centrale di Natanz, a più di trecento chilometri da Teheran, doveè stato possibile avviare un processo per l’arricchimento dell’uranio.

Con la scoperta della centrale di Natanz, dopo la visita dell’Agenzia atomica di Vienna, e l’avvio di sanzioni contro l’Iran, i servizi segreti israeliani hanno operato insieme a quelli americani, inglesi e francesi, per seguire ed ostacolare il programma nucleare che continuava imperterrito. Insieme alle iniziative legittime, approvate dagli organismi internazionali, si sono moltiplicate le azioni clandestine, spesso attribuite al Mossad.

Meir Dagan, allora appunto capo dei servizi segreti, ricevette fondi illimitati dal generale Sharon, con l’ordine di «fermare la bomba iraniana». Nel New York Times Magazine, Ronen Bergman illustra la strategia di Dagan. Si articolava in cinque punti: pressioni politiche, azioni segrete, controproliferazione, sanzioni, cambio di regime. La strategia era ambiziosae rischiosa. Sono cominciati gli omicidi.

Quello del dottor Ardeshir Hosseinpour, scienziato in una centrale nucleare, suscitò scalpore e accese mille congetture. Morì asfissiato dal gas e gli iraniani accusarono il Mossad. Massud Ali Mohammadi, un fisico,è stato ucciso nel gennaio di due anni fa, da una bomba esplosa vicino alla sua automobile, mentre stava per mettersi al volante. Nel novembre dello stesso anno c’è stata la caccia all’uomo nelle strade di Teheran.

Due motociclisti hanno fatto esplodere le automobili di due ricercatori di rilievo: Majid Shahriari e Fereydum Abbasi-Davani.

Shahriari è morto dilaniato dalla bomba. Con la moglie, AbbasiDavani è invece riuscito ad allontanarsi in tempo, e ora è vice presidente dell’Irane capo dell’agenzia atomica nazionale. Si muove soltanto ben scortato.

Nel luglio scorso un motociclista ha teso un’imboscata a Dariush Rezaej-Nejad, pure lui fisico nucleare, mentre era seduto nella sua automobile, davanti a casa.

Quattro mesi dopo, a 50 chilometri da Teheran, saltava per aria il generale Hassan Moghaddam, capo del reparto per la ricerca missilistica della Guardia rivoluzionaria.E con lui morivano uccisi 16 collaboratori. Un paio di settimane fa, l’11 gennaio, il vice direttore della centrale di Natanz, quella dell’arricchimento dell’uranio, veniva ucciso da due motociclisti, mentre raggiungeva in automobile il suo laboratorio di Teheran.

Si chiamava Mostafa Ahmadi-Roshan ed è stata l’ultima vittima. Hillary Clinton, il segretario di Stato americano, ha condannato l’assassinio, che gli iraniani avevano già  attribuito al Mossad. Il presidente Shimon Peres si è affrettato a precisare che lui non era a conoscenza di una partecipazione israeliana a quel delitto. Quelli del Mossad (riferisce Ronen Bergman, sul New York Times) si guardano bene dall’attribuirsi azioni del genere. Meir Dagan, il loro ex capo, dice non avere compiuto ho ordinato azioni di quella natura neppure all’epoca in cui Sharon gli aveva ordinato di fermare a tutti i costi la bomba iraniana. Fa tuttavia notare che una morte come quella del professor Mostafa Ahmadi-Roshan è una grave perdita per il programma nucleare iraniano. Ahmadi-Roshan era un cervello importante. E gli scienziati, che non sono soldati, esitano a farsi ammazzare. Ma la loro decimazione non ha fermato la bomba. Per questo ci vuole un attacco aereo. Qualcosa che assomiglia a una guerra.

Teheran nega ma presto sarà  nelle condizioni di avere l’ordigno micidiale Gli esperti temono che l’estate sarà  una stagione di drammatiche sorprese


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