La Val di Susa e l’asimmetria delle ragioni

by Editore | 29 Febbraio 2012 10:22

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E la manifestazione di sabato scorso ne ha dato un’impressionante conferma. Sono convinti che sia un gravissimo errore non solo per la devastazione che provocherà  a quei luoghi, ma rispetto ai suoi stessi propositi economici e commerciali. Dunque il problema drammatico che si trovano ad affrontare è questo: che cosa è giusto fare quando si crede fermamente di avere ragione, e si sente che il proprio avversario, dalla parte del torto – in buona o cattiva fede – è disposto a tutto pur di non smettere la strada intrapresa? Si può obiettare che il problema sia reciproco, e che il governo e lo Stato, convinti di trovarsi dalla parte della ragione, debbano loro porsi il problema della tenacia intransigente di una cittadinanza. Ma questa simmetria, al punto cui siamo, è soltanto apparente. Intanto, per la sproporzione delle forze. Ma soprattutto perché tra i fautori della Tav prevalgono da tempo argomenti estrinseci e, per così dire, di convenienze: non si può mancare, per l’avversione di una particolare popolazione, a decisioni prese e confermate ripetutamente da istituzioni che rappresentano tutto il popolo italiano, e ancora meno si può mancare a impegni europei. 
Fra gli avvertimenti più pressanti c’è la notizia che “già  si scava” sul versante francese. Anche qui, come sull’intera crisi, una specie di ineluttabilità , di inesorabilità  da fatto compiuto, vuole pesare sulle obiezioni di merito di quella cittadinanza. E alcune delle più rilevanti obiezioni di merito sono il frutto del lunghissimo tempo trascorso fra il progetto iniziale della Tav e la situazione attuale, così cambiata da inficiare quelle motivazioni. Se si stesse “serenamente” ai fatti, bisognerebbe riconoscere – così pare a me, che sono un orecchiatore non specialista, e però la sorte di tante vertenze locali e localiste avrebbe bisogno di arrivare all’orecchio di non specialisti e non locali – che i fautori della Tav appartengono a quel partito trasversale e ingordo che si chiama il Partito Preso. Il loro avverbio è: Ormai. Ormai, non si può che continuare. Lo ripetono, come per convincersene meglio. Lo direbbero, con la stessa inesorabilità , a proposito del nucleare, se non ci fosse stato l’accidente di Fukushima, e aspettano solo di ricominciare. Ammesso che il progetto originario fosse fondato (la gente della Valle lo negò da subito) è passato da allora il tempo di una generazione, e l’impresa promette adesso di far dilapidare denaro – una parte, perché di un’altra non si sa da dove possa arrivare – ; di far viaggiare a grande velocità , e a km 5 mila piuttosto che a km zero, merci che anche loro non ci sono; a sacrificare ancora al feticcio dei Grandi Lavori, a scapito di lavori piccoli che riparerebbero Pompei e arginerebbero il Bisagno e farebbero andare in treno le persone da Catania a Comiso; e infine di assicurare a qualunque governo un focolaio di scontro micidiale.
Qualcuno ammonisce amaramente il movimento anti-Tav a rendersi conto che la sua è una partita persa, e a tirarne le conseguenze. Dubito che l’argomento sia efficace. Certo, a questo punto gli argomenti efficaci sembrano tutti venir meno, e due partiti presi affrontarsi in una sfida senza mediazione. Soprattutto, per chi sente di aver ragione – e gli abitanti della Val di Susa lo sentono così fortemente – la sensazione di una battaglia impossibile non è un deterrente adeguato, anzi: ci sono cause perse che proprio per questo spingono a battersi senza riserve. Dunque è difficile che sia il realismo a scongiurare il peggio, e almeno questo genere di realismo. Quanto al dialogo invocato ancora ieri dal ministro dell’Interno, a ridosso della tragica caduta di un militante anarchico, è augurio spuntato, su un tema che non prevede più mediazioni e che esige di schierarsi per un sì o per un no. 
Dunque si torna a quella domanda: che cosa è giusto fare quando si sa e si crede di avere ragione, e ci si accorge di trovarsi in un vicolo cieco? La nonviolenza è nata per rispondere a questa domanda ricorrente, ma la nonviolenza è una scelta morale e un metodo, non una garanzia di vincere. Nello scontro sulla Tav, e nelle sue molteplici diramazioni nel resto d’Italia, non è affatto detto che la nonviolenza prevalga, nei comportamenti del movimento e ancor meno in quelli dell’ordine pubblico; ed è invece prevedibile una catena di azioni e reazioni incontrollabili da chiunque, e manipolabili da molti. Il partito preso si nutre di frasi fatte: “dovranno passare sui nostri cadaveri”. Le frasi sanno scivolare fino ai loro fatti, e l’abnegazione disastrosa del “passeranno sui nostri cadaveri” al disastro del “passeremo sui loro cadaveri”. 
Si rifà  un gran parlare, in questi giorni, dell’incombenza di morti che ci scappano e morti ammazzati. Vogliono essere scongiuri, diventano facilmente profezie che si autoadempiono. Sul traliccio dell’altroieri è toccato a uno dei No-Tav. Non aveva fatto niente di violento, si era arrampicato più su della sua bandiera. Qualunque parte vi abbia avuto la polizia, questa era la circostanza. La militarizzazione della valle ha pochi paragoni, dall’antica rivolta di Reggio Calabria. Anche di questo l’intervento di polizia fra domenica e lunedì ha dato un’impressionante conferma. Non so come la cittadinanza della Val di Susa possa impiegare una responsabilità  che le autorità  mostrano di non avere: di non riuscire ad avere, anche se lo desiderassero davvero, inchiodate come si sono al loro ruolo. Penso che ci sia un legame, solo in apparenza paradossale, fra la convinzione di avere ragione e di battersi non solo per sé e per il proprio cortile, ma anche per gli altri e per le generazioni a venire, e il coraggio di uscire dall’angolo, di proclamare un disarmo unilaterale e farne il terreno nuovo sul quale disarmare l’oltranzismo avversario. Di far scivolare il No-Tav, piuttosto che verso il corpo a corpo, verso l’irriducibile “Preferirei di no” dello scrivano Bartleby. Di reinventare le risorse della diserzione. Non so se sia possibile. So che comunque non lo sarebbe, se non si spostasse la testimonianza dal cantiere dei fantasmi ai cittadini che la Val di Susa la conoscono sì e no in cartolina, e anche di quelli che non sono militanti di niente, se non della democrazia

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