Le truppe occidentali preparano il ritiro. E la sinistra italiana, che cosa dice?

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Naufragata l’ipotesi che, con la costruzione dell’Unione europea, nascesse una sinistra continentale capace di parlare di politica estera, un soggetto politico riconoscibile in un mondo dagli equilibri mutati, anche la sinistra italiana sembra aver perso interesse per le questioni internazionali. La guerra in Afghanistan lo testimonia in modo esemplare. Di Afghanistan la sinistra ha sempre parlato poco e male. L’ha fatto, nei primi anni successivi all’occupazione, come terreno di scontro su cui esercitare le armi della critica fratricida, schierando gli uni contro il «pacifismo ingenuo» e gli altri contro «i guerrafondai neo-imperialisti». Oggi l’enfasi e l’accanimento di quegli anni è un lontano ricordo, sostituito da un più cinico attendismo. Si aspetta il ritiro delle truppe internazionali, che secondo il segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta potrebbe essere anticipato rispetto alla data prevista del 2014, e il resto si vedrà . Nel frattempo, a nessuno è venuto in mente di provare a confrontare le proprie convinzioni con la popolazione afghana, che subisce le conseguenze micidiali (l’ultimo rapporto della missione Onu parla di 3021 morti civili nel 2011) di una guerra ingiusta. Ingiusta perché – come dimostrano i ricercatori Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn in un libro appena uscito, An Enemy We Created (Hurst 2012) – i Taleban non hanno avuto alcun ruolo nell’attacco alle Torri gemelle, e il legame con al Qaeda è sempre stato problematico, a tratti conflittuale. I Taleban, dunque, non ne hanno responsabilità . E tanto meno i civili afghani.
Smaliziati e pragmatici, in questi dieci anni gli afghani non sono però rimasti a riflettere sulla legittimità  giuridica dell’intervento armato, ma hanno pensato a cosa ricavare – oltre alle bombe sulla testa e ai raid notturni – dalla presenza della comunità  internazionale. Senza rinunciare a giudicare. Il giudizio è estremamente negativo: le condizioni della sicurezza sono perfino peggiori che in passato, le truppe straniere agiscono al di fuori di ogni legge e seguendo i propri interessi, la ricostruzione non è avvenuta, i soldi si perdono nella corruzione. Eppure, molti temono le conseguenze del ritiro delle truppe. Tra le ragioni: la forte instabilità  del quadro politico interno, la scarsa fiducia nei confronti della leadership locale e l’idea che le truppe straniere rappresentino un deterrente all’affermazione dei Talebani più efficace dell’esercito locale, ancora impreparato. Ma soprattutto la preoccupazione che il vuoto che ne deriverebbe sarebbe occupato dalle potenze regionali confinanti, in particolare da Iran e Pakistan, e l’idea che, una volta avvenuto il ritiro, gli attori internazionali possano rinunciare a ogni futuro impegno politico-finanziario. Puro buon senso, di fronte a un paese che, nel 2014, rischia di collassare economicamente. Negli ultimi due mesi prima la Banca mondiale, poi il Fondo monetario internazionale (alla conferenza di Bonn di dicembre 2011), infine, pochi giorni fa, il ministro delle Finanze afghane Zakhilwal lo hanno detto chiaro e tondo, anche se con il linguaggio felpato della diplomazia: tutti si affrettano a fare le valigie e riportare i soldati a casa, ma senza un’assistenza economica e finanziaria per almeno altri dieci anni l’Afghanistan cadrà  come un castello di sabbia. 
Se questa è la situazione, la sinistra italiana che fa? Si limita a reclamare, sempre più sommessamente, il ritiro delle truppe, finendo per adottare paradossalmente quella che è la posizione della Nato, o prova a immaginare qualcosa di diverso e più articolato? Nell’attesa che l’Europa possa finalmente affermarsi come attore politico regionale, in Italia si potrebbe cominciare con due cose: chiedere conto al governo Monti della promessa fatta a Karzai il 26 gennaio, durante la firma dell’accordo di partenariato (ancora off-limits per i giornalisti), di invertire la rotta, sostenendo l’Afghanistan soprattutto in ambito civile (senza che questo voglia dire affari per le ditte italiane e per Finmeccanica e nulla per gli afghani). E poi fare un po’ di chiarezza, distinguendo con più precisione la politica estera da quella della difesa. Per capire meglio dove vuole andare l’Italia, e con quali strumenti vuole farlo: se con le armi o con la cooperazione.


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