Libia senza pace, tra gas, propaganda e violazioni dei diritti umani

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Proprio quest’ultimo punto – la tutela dei diritti umani – era stato uno dei principali motivi per l’intervento occidentale contro il regime di Gheddafi, campione in negativo per il trattamento di detenuti, prigionieri politici, profughi, ribelli catturati. Oggi, dopo sei mesi dalla caduta del Colonnello, la situazione è analoga a quella registrata per 40 anni. Le organizzazioni internazionali lanciano l’allarme.

In un comunicato del 26 gennaio scorso Medici senza frontiere annuncia la sospensione delle proprie attività  nei centri di detenzione di Misurata, perché ai detenuti vengono inflitte torture e negato l’accesso a cure mediche di urgenza. “Le équipe di MSF lavorano nei centri di detenzione di Misurata da agosto 2011, curando i detenuti con ferite da guerra. Da allora, i medici di MSF si sono confrontati con un numero crescente di pazienti con ferite causate da torture subite durante gli interrogatori, svolti al di fuori dei centri di detenzione. In totale, MSF ha curato 115 persone con ferite da tortura e ha riferito tutti i casi alle autorità  rilevanti di Misurata. Da gennaio, molti dei pazienti riportati nei centri per gli interrogatori sono stati nuovamente torturati.

«Alcuni funzionari hanno tentato di strumentalizzare e ostacolare le attività  mediche di MSF», denuncia il direttore generale di MSF, Christopher Stokes. «Ci hanno consegnato pazienti provenienti da interrogatori affinché li stabilizzassimo per poterli nuovamente interrogare. Ciò è inaccettabile. Il nostro compito è quello di fornire cure mediche per feriti in guerra e detenuti malati, non di curare ripetutamente gli stessi pazienti per poter essere nuovamente torturati».

Il caso più preoccupante ha avuto luogo il 3 gennaio scorso, quando i medici di MSF hanno curato un gruppo di 14 detenuti di ritorno da un centro per gli interrogatori situato fuori dalle strutture di detenzione. Nonostante le reiterate richieste di MSF di porre fine alle torture, 9 dei 14 detenuti avevano numerose ferite e presentavano evidenti segni di tortura”.

I tentativi dell’organizzazione di far desistere le autorità  libiche da questi comportamenti sono stati vani e così MSF ha dovuto fare le valigie. Comunque “MSF proseguirà  le proprie attività  di assistenza psicologica nelle scuole e negli ospedali di Misurata, così come l’assistenza a 3.000 migranti africani, rifugiati e sfollati dentro e fuori Tripoli”.

Stessa denuncia da Amnesty International che, dopo le denunce contenute nel rapporto sui diritti umani in Medio oriente, riporta descrizioni agghiaccianti del trattamento riservato ai detenuti, finiti nelle galere libiche spesso per reati minori come accade per i migranti. Nelle carceri di Misurata come in quelle di Tripoli, la tortura è un’abitudine. “Le torture sono inflitte da appartenenti alle forze di sicurezza e militari ufficialmente riconosciute, così come dalle moltitudini di milizie armate che operano al di fuori di qualsiasi contesto legale.

«Dopo tutte le promesse di porre i centri di detenzione sotto controllo, è terribile constatare che non c’è stato alcun passo avanti per porre fine all’uso dellatortura» – ha dichiarato Donatella Rovera di Amnesty International. «Non siamo a conoscenza di alcuna indagine adeguata sui casi di tortura né di alcuna procedura per cui le vittime della tortura o i parenti di chi è morto sotto tortura abbiano potuto chiedere giustizia e risarcimento. Alcuni detenuti ci hanno raccontato le torture, altri si sono rifiutati, limitandosi a mostrarci le ferite, nel timore di poter subire un trattamento peggiore».

I detenuti, sia libici che stranieri provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana, hanno riferito ad Amnesty International di essere stati appesi in posizioni contorte, picchiati per ore con fruste, cavi, tubi di plastica, catene, sbarre di metallo e bastoni di legno e di aver subito scariche elettriche sia con gli elettrodi che con congegni simili alle pistole taser. … I detenuti sono stati di solito torturati immediatamente dopo l’arresto da parte delle milizie armate locali e poi durante gli interrogatori, anche all’interno di luoghi ufficialmente riconosciuti come centri di detenzione. Finora i detenuti non sono stati autorizzati a incontrare i loro avvocati. Diversi di essi hanno detto ad Amnesty International di aver confessato reati mai commessi pur di far cessare le torture.

Il più recente caso di morte in carcere a seguito di tortura di cui Amnesty International è a conoscenza è quello di Ezzeddine al-Ghool, un colonnello di 43 anni padre di sette figli, arrestato dalle milizie armate a Gheryan, 100 chilometri a sud di Tripoli, il 14 gennaio. Il suo corpo è stato riconsegnato ai parenti il giorno dopo, pieno di ematomi e ferite. I medici hanno confermato che è morto di tortura. Diversi altri detenuti sono stati torturati nello stesso periodo e otto di loro sono stati ricoverati in ospedale per le gravi ferite riportate”.

Il giudizio di Amnesty è drastico: “Finora, chi controlla il potere non ha minimamente preso provvedimenti concreti per porre fine alle torture e ai maltrattamenti e chiamare i responsabili a rispondere dei loro crimini. Non stiamo sottostimando la complessità  dei problemi che le autorità  transitorie libiche devono affrontare per riprendere il controllo sulla moltitudine di milizie armate che operano in tutto il paese, ma pretendiamo che assumano iniziative ferme contro la tortura. Nell’interesse della costruzione di una nuova Libia basata sul rispetto dei diritti umani, questo tema non può essere lasciato in fondo all’agenda”.

L’organizzazione chiede alle autorità  di monitorare i centri di detenzione, di assicurare immediate indagini sui casi di tortura, di garantire ai detenuti una regolare assistenza legale e adeguate cure mediche.

Ma c’è di più. La Libia è stata per lungo tempo una sorta di “colonia penale”, senza alcun tipo di controllo o di garanzia, dei servizi segreti occidentali (allora amici del Colonnello) che mandavano nelle prigioni libiche sospettati di terrorismo secondo la dottrina delle “extraordinary rendition”, sequestri illegali di persona allo scopo di prevenire eventuali attentati. In Italia ricordiamo il caso di Abu Omar. La Libia era uno degli approdi di questi arresti-sparizioni.

L’agenzia ASCA riporta il caso dei servizi segreti britannici che consegnavano prigionieri al regime di Gheddafi. “Abdelhakim Belhaj, ex combattente della jihad diventato comandante militare dopo la caduta di Muammar Gheddafi e Sami al-Saadi, ex membro dell’opposizione libica, accusano i servizi segreti britannici di tortura. I due libici hanno intrapreso un’azione legale contro l’ex capo del MI6, il servizio di intelligence inglese, Mark Allen, accusandolo di averli consegnati ai militari del regime di Gheddafi.

Belhaj ha presentato il primo ricorso in Gran Bretagna alla fine dell’anno. Citando dei documenti ritrovati in Libia dopo la caduta del Colonnello, i suoi avvocati sostengono che l’uomo è stato consegnato dalla Cia al regime libico nel 2004, con l’aiuto dei britannici. Belhaj si trovava allora in Asia e dirigeva un gruppo islamico combattente che si opponeva a Gheddafi. I legali affermano che ha passato sei anni in «una delle prigioni più crudeli della Libia», periodo nel quale è stato interrogato anche da agenti del servizio britannico.

Sami al-Saadi sostiene che membri del servizio segreto inglese hanno collaborato al suo arresto avvenuto a Hong Kong nel 2004 e alla sua restituzione alle autorità  libiche, che lo hanno sottoposto ad anni di torture”. L’inchiesta sta andando avanti.

Insomma il cambio di regime, almeno da questo punto di vista, non è servito a nulla.Anche sull’immigrazione la nuova Libia batte su una vecchia grancassa, quella degli aiuti per gestire il problema dei profughi e dei migranti. Il viaggio di Monti nel paese “liberato” è sembrato del tutto simile a quello dei suoi predecessori che omaggiavano Gheddafi (per fortuna il compassato Monti, che non bacia neppure l’anello del Papa, non si è esibito in eccessi di famigliarità  con i nuovi potenti di Tripoli). Quello che interessa è il gas.

Eppure qualche barlume di speranza non è stato ancora spento. C’è chi in Libia lavora davvero per il rinnovamento a cominciare dalla scuola. Occorre liberare il paese da decenni di una propaganda invasiva che celebrava il regime fin nei libri di storia. Abdulnubi Abughania, direttore del Centro curricula ed educazione scolastica, difende il suo lavoro in collaborazione con il Ministero della cultura: “Abbiamo eliminato la propaganda che soffocava l’istruzione e abbiamo aggiunto le numerose parti omesse… Tre materie sono state soppresse: Jamarihiya (lo “Stato delle masse”, secondo il “Libro verde” di Gheddafi, ndr), studiata alle scuole elementari, scienze politiche e scienze militari in quelle secondarie”. Dovevi mostrare di credere nei pensieri di Muammar: questo l’obbligo per tutti.

La libertà  nell’insegnamento è uno dei presupposti per la nascita di uno Stato che tutela il diritto. Speriamo che a una propaganda non se ne sostituisca un’altra


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