L’incontro: Roberto Herlitzka

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ROMA – Messo splendidamente a nudo, nel vero senso del termine, dal bellissimo film d’autore (quasi muto, ma con immagini che parlano) Sette opere di misericordia dei gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio, quell’attore raro, geniale, austero e pungente che a teatro e nel cinema è Roberto Herlitzka accetta anche di buon grado di spogliare fino alla più irta e impronunciabile radice il suo cognome (che si pronuncia con l’accento sulla “i”), ricavandone un’epopea biografica. Il ritratto comincia da qui. «Sa che nella città  d’origine della mia famiglia, a Brno, la versione originale cecoslovacca del nome prevedeva una sola vocale, e si scriveva Hrdlcka? Fu poi austriacizzata perché la Boemia faceva parte dell’impero austriaco. Ed è un cognome che è un diminutivo di allodola o tortora e che può essere ebraico e non esserlo e nel mio caso lo è. Mio padre e mia madre (lei era cattolica) si sono separati di comune accordo poco dopo la mia nascita anche perché lui nel 1938 è dovuto scappare da Torino per via del nome e dell’identità  a seguito delle leggi razziali, e io e mamma ci siamo nel frattempo coperti dietro il cognome di lei, Berruti, finendo come sfollati a Cogne e riacquistando il cognome Herlitzka solo dopo la guerra. Più tardi papà  è tornato dall’Argentina, con una nuova moglie e con una bambina, Laura, mia sorella, mantenendo sempre un ottimo rapporto con mia madre. E dato che c’era stato anche un annullamento della Sacra Rota lei si è risposata dopo che io a diciotto anni sono venuto via da Torino per frequentare l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” a Roma, ospite di mio padre. E questa bella, affettuosa saga famigliare allargata è venuta meno solo con le scomparse di lei, ventidue anni fa, e di lui, tredici anni fa». 
Non ci sono spiacevoli odissee domestiche, dietro quel volto scavato, quella maschera dura e pura, quella severità  secca che hanno determinato la non commercialità  di questo artista e, al contrario, le sue alte quotazioni nella scena e nel cinema dove contano le idee, con sodalizi tra cui quelli con Orazio Costa, Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Antonio Calenda, Peter Stein, Gabriele Lavia, Ruggero Cappuccio, Lina Wertmà¼ller o Teresa Pedroni, ed esperienze in sempre più numerosi film con registi che vanno da Montaldo a Bellocchio. «In effetti ho una predisposizione al dolore, al tormento, ma è un’indole bilanciata da una caustica voglia di divertirmi, tanto che qualche volta arrivo a dire che sono un attore fondamentalmente comico. Ammetto, per esempio, che per molto tempo mi sono andato a cercare la piacevolezza della vita nel bere, perdendo i freni inibitori nell’ubriacatura, libertà  che però non mi sono più permesso perché dopo era frequente che stessi male. In fondo, senza che io mi paragoni a lui, anche Kafka era un buontempone, e lo stesso Leopardi».
Classe 1937, Herlitzka a Torino aveva fatto quattro esami a Lettere, quando è colpito da un’operina del Settecento cui ha la ventura d’assistere. Soprattutto s’innamora della scena finale dei ringraziamenti degli attori («Io non ho mai saputo ringraziare bene, agli applausi») e gli scatta qualcosa dentro, vuole esercitarsi e diplomarsi in accademia, a Roma, meritandosi la stima totale di Orazio Costa, che lo avvia al palcoscenico: «Ero un pazzoide, e seguendo alla lettera il suo metodo mimico mi accorsi con imbarazzo che alla fine imitavo proprio lui, davvero un eccesso». Da allora a oggi ha lavorato sempre, per un traguardo di serietà  più che di popolarità . Anche se… «Quando nel 1970 ho fatto per la televisione lo sceneggiato in sei puntate Un certo Harry Brent, avendo per antagonista Alberto Lupo ho conosciuto una gran notorietà , ricevevo lettere, telefonate, applausi al ristorante, e la cosa si è ripetuta per una serie sulla Guardia di finanza, con ragazzini e ragazzine che mi chiedevano l’autografo. Ma la cosa passò in fretta. Eppure confesso che a me fanno piacere queste cose. Tant’è che di recente la mia partecipazione a una puntata di Boris, dove faccio il grande attore cui irriferibilmente viene raccomandato di recitare “male”, mi ha restituito il conforto d’un seguito giovanile che nemmeno l’Amleto. Io faccio l’attore per narcisismo, per comunicare e colpire. E malgrado tutto, a un certo punto ho avuto un dubbio, se lasciare la recitazione per la scrittura». Eccolo, l’Herlitzka intellettuale, contemplativo, letterato. «Ma sì, scrivere m’ha sempre attratto molto. In fondo avevo messo nero su bianco la mia fantasia fin da piccolo, buttando giù poesie e tutt’oggi compongo sonetti perché ho familiarità  coi versi, le rime mi emozionano, mi fanno l’effetto di un alcolico. Nel 2001 mi sono deciso a pubblicare a mie spese un volume di poesie intitolato Voci? di cui mi sono rimaste un bel po’ di copie. Il contenuto è fatto di temi soggettivi, sensazioni, visioni, constatazioni. La vegetazione di prati e colline vista da un treno m’affascina come una festa che preluda a un disastro». S’è anche dedicato, per iscritto, a un tema scabroso. «Ho composto un unico racconto, Una fanciulla illibata, quando avevo appreso ciò che era avvenuto in qualche cimitero dove i becchini prima di seppellire certe giovani fanciulle morte ancora vergini le stupravano nel modo più macabro». Ma la scrittura ricorre, con Herlitzka, anche sul filo dei sogni. «La mia attività  più costante, solo di recente un po’ venuta meno, è trascrivere subito i sogni che faccio di notte, ne ho già  pubblicato un libro, Ipnodrammi». Non bastasse questa produzione, ci sono pure gli appunti personali. «Sì, ho dei quaderni, dei diari che ho smesso di compilare solo qualche anno fa, dove accumulavo gli sfoghi per amori infelici, per insoddisfazioni o frustrazioni subìte stando in compagnia di gente diversa da me, che non mi capiva». Un uomo di teatro come lui avrà  quindi pure un teatro privato dell’esistenza, un teatro degli affetti, delle affinità  sicure. «La persona che più sento vicina è mia moglie Chiara, siamo sposati dal 1968. Lei è anche il mio pubblico più dedito, le leggo sempre quello che scrivo e le dico quello che sto per recitare, e il suo parere è profondamente importante. Poi ci sono rari amici e amiche. Maria Teresa Bax, Paola Mannoni (la mia ragazza ai tempi dell’accademia), Stefano Santospago e altri che non vedo mai come Giorgio Pressburger, Ruggero Cappuccio, Nadia Baldi, Claudio Di Palma». 
Come un autorevole e autoironico Re Lear del mondo dello spettacolo italiano compirà  settantacinque anni a ottobre e viene naturale chiedere quale sia, anche in considerazione del nudo artistico, il suo rapporto con l’età  e col corpo. «Non lo trovo né un limite né un privilegio. Mi sono coniato un motto: “il passato è presente, il presente è assente, il futuro è passato”. Col fisico ho un rapporto di cura, faccio qualche esercizio, ho il terrore di un peggioramento estetico violento e le rughe che ho mi bastano e avanzano. Non è la prima volta che sul grande schermo appaio nudo: è già  successo in È più facile per un cammello… di Valeria Bruni Tedeschi dove ero il padre di lei appena morto e in una scena tagliata di Aria di Valerio D’Annunzio». Un capitolo a parte sarebbe costituito dai transfert femminili del corpo di Herlitzka con lui donna in Lasciami andare, madre di Lina Wertmà¼ller, nel mai uscito Grottesco di Rubino Rubini, ne La grazia umana di Antonio Nediani, o nelle sublimazioni di Ofelia in ExAmleto e di Desdemona in ExOtello, due lavori in cui dice da solo tutte le battute clou. 
Ma più che preoccuparsi di gender e di fattezze anatomiche uno come lui ha a cuore il corpus culturale. «La cultura è stata colpita, fino a qualche tempo fa addirittura disprezzata dal governo. Non è detto che poi non sappia reagire, e comunque il pericolo maggiore è che venga costretta ad adeguarsi al potere». Sull’arte e sugli artisti ha idee chiare. «Esemplari per me erano Ricci, Randone, Salerno, Scaccia e naturalmente Gassman, per ricordare solo alcuni degli scomparsi. E oggi penso a Lavia e alla Degli Esposti». Certezze anche negli autori di riferimento. «Shakespeare, Cechov, Beckett, Bernhard, i tragici greci». Consigli per i drammaturghi di oggi? «Leggo molti copioni che mi mandano. Ho un’obiezione da fare: il testo è troppo spesso considerato narrazione, invece attraverso la parola si deve rappresentare anche la vita. Anche le pause sono parole». 
Ha molto da fare col cinema adesso. «Parteciperò al film La bella addormentata di Bellocchio. C’è un progetto su Ferramonti, un campo di concentramento italiano dal volto umano. Lavorerò ne Il Rosso e il Blu di Giuseppe Piccioni. Per il teatro Ruggero Cappuccio sta abbozzando una riduzione del Soccombente di Bernhard». Lo scenario delle cose che lo disturbano è altrettanto fitto. «Le mancanze di rispetto, le ignoranze proterve, le volgarità , le stupidità , i fascismi, i razzismi. Invece non sono in dissidio ideologico con i personaggi sciagurati: se scritti bene».


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