«La magistratura è sana, il suo vertice molto meno»

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Trascorse un decennio e col ciclone di Mani pulite, accompagnato dalle stragi orchestrate da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, la situazione si rovesciò: «Il rapporto mafia-politica era entrato di nuovo in profonda crisi; questa volta però al contrario e cioè per indebolimento non del contraente mafioso, ma di quello politico». È il periodo in cui l’ultimo importante «uomo d’onore» pentito, Gaspare Spatuzza, colloca il colloquio in cui il boss stragista Giuseppe Graviano gli disse che finalmente avevano «il Paese nelle mani», perché era stato raggiunto un accordo con Silvio Berlusconi, «quello di Canale 5», che di lì a poco entrò in politica. 
«Puntuale si affaccia l’ennesima coincidenza» nota Giuseppe Ayala, magistrato ed esponente politico che negli ultimi trent’anni ha assistito alle due fasi da lui stesso descritte da un doppio osservatorio: prima con la toga sulle spalle e poi sugli scranni di Montecitorio, deputato dello schieramento cosiddetto progressista. E che ora in un libro intitolato, per l’appunto, Troppe coincidenze (Mondadori, pagine 168, € 12), ripercorre gli intrecci e i sospetti generati da fatti apparentemente casuali, suggerendo interpretazioni che li rendono meno fortuiti e più legati all’evoluzione dei rapporti tra la mafia e pezzi delle istituzioni. Partendo dalla strage di Capaci che uccise il suo amico Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli uomini della scorta, di cui quest’anno ricorre il ventennale. 
Proprio quella bomba, e gli effetti che ebbe sulla corsa al Quirinale a cui s’era iscritto con buone probabilità  di successo Giulio Andreotti, costituisce la prima coincidenza indicata da Ayala: sventrando l’autostrada Palermo-Punta Raisi, i boss sbarrarono la strada per l’elezione del senatore a vita a presidente della Repubblica. Furono lo stesso Andreotti e i suoi uomini più fidati — che già  s’erano dovuti interrogare sull’omicidio del «luogotenente» andreottiano in Sicilia, Salvo Lima, avvenuto due mesi prima — a interpretare l’attentato in quella chiave. Strano, notò all’epoca e sottolinea oggi Ayala. Così com’è strano che la notte delle bombe del luglio 1993 ci sia stato un inquietante blackout telefonico nell’area di palazzo Chigi, da dove il capo del governo stava affrontando l’emergenza; e che nove anni dopo (nel 2002, a governo Berlusconi da poco reinsediato) un capomafia del calibro di Leoluca Bagarella lanciasse proclami minacciosi contro i politici che non avevano mantenuto le promesse. 
I ricordi e gli aneddoti si sovrappongono, svelando tra l’altro il retroscena che sia nei governi di centrodestra sia in quelli di centrosinistra c’era chi aveva promesso al magistrato prestato alla politica la poltrona di ministro della Giustizia. Ma nessuno, alla fine, affidò il compito di guardasigilli ad Ayala che oggi, chiusa la parentesi politica e tornato a vestire la toga in tutt’altra realtà  rispetto agli anni palermitani della guerra di mafia, dispensa questo giudizio sulla magistratura italiana: «È un corpo sano che merita la fiducia dei cittadini. Non è perfetto, certo, né infallibile, ma rimane affidabile. La testa invece, intesa come Consiglio superiore della magistratura e Associazione nazionale magistrati, lo è molto meno».


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