Più parole che fatti: così il garantismo si è indebolito a sinistra

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Il discorso sul garantismo ci pone di fronte a un paradosso. Per illustrarlo nella maniera più nitida, è opportuno partire da una dichiarazione d’intenti: indicare i criteri fondanti di una concezione garantista del sistema penale. Una sorta di “Bignami” o forse un «Manuale del perfetto garantista». Dunque: intendiamo per garantismo il rispetto da parte del legislatore, della magistratura, dell’amministrazione dei principi costituzionali fondativi del sistema penale. Ovvero quello del minimo sacrificio necessario della libertà  personale, della presunzione di non colpevolezza, della offensività , materialità , tassatività  delle fattispecie. E il diritto di difesa, la struttura accusatoria del processo, il fine risocializzante della pena. Ciò comporta, in sintesi, il rifiuto di ogni forma di diritto penale (sostanziale, processuale, penitenziario) che sia “speciale”, derogatorio cioè dei principi generali e delle garanzie individuali, connotato da logiche di diritto d’autore o di colpa per la condotta di vita. In breve: il diritto penale deve essere la Magna Charta del reo.
Dov’è il paradosso cui accennavamo? Consiste nel fatto che tutti coloro che hanno come riferimento lo Stato di diritto dicono di riconoscersi pienamente nei principi garantisti appena elencati. Ma perché allora, nella pratica politica quotidiana, ci si discosta da essi con tanta frequenza e con altrettanta facilità  o, addirittura nonchalance?
Le ragioni sono tante e qui le elenchiamo solo per titoli.
La persistenza della politica dell’emergenza, quale tratto distintivo dello stile nazionale di governo: da 40 anni il nostro Paese vive una sequenza incalzante e micidiale di stati di eccezione. Dal terrorismo nero a quello rosso, dal colera di Napoli all’Aids, dal terremoto in Irpinia a quello dell’Aquila, dal tifo organizzato agli sbarchi a Lampedusa. Ciascuna di queste emergenze, vissute come tali dalla gran parte della classe politica e del sistema mediatico, sembra pretendere normative speciali e quasi sempre le ottiene.
Un’altra ragione del profondo divario tra principi affermati e pratica politica è quella che possiamo definire dello pseudo-Machiavelli: una lettura stracciona di quella concezione drammatica sottesa alla formula: il fine giustifica i mezzi. La sconfitta di Berlusconi, insomma, vale l’indifferenza verso alcune garanzie, anche se il rinunciarvi rischia di compromettere l’intero sistema; e anche se, soprattutto, in questo conflitto anomalo e diseguale è stata la destra a infliggere le lesioni più traumatiche all’ordinamento.
La terza ragione è quella discendente dal mito della pubblica opinione: l’ideologia securitaria risulta così dominante nel senso comune della classe politica da indurci a ritenere, se non doveroso, certamente inevitabile assecondarla. Fino a correre il rischio di riconoscerci in essa. Le ansie collettive ci appaiono così connotate socialmente (riconducibili cioè agli strati più deboli), da indurre un partito che si vuole e deve essere popolare a subordinarsi a esse, rinunciando a razionalizzarle, mediarle, orientarle. Quelle stesse ansie, oltretutto, risultano così elettoralmente remunerative per i nostri avversari da spingerci a investire in esse per ricavarne una qualche quota parte sul piano dei consensi.
Tutto ciò ha un effetto profondo. In realtà , la nostra timidezza garantista non si deve, in primo luogo, a un calcolo o troppo meschino o troppo razionale, bensì a una crescente convinzione. A tal punto, tutti noi proprio tutti noi avvertiamo il fascino insidioso del “governo della paura” da lasciarcene conquistare, almeno in qualche misura. Ecco un esempio particolarmente preoccupante.
Se pensiamo che la politica migratoria debba essere prudente e timorosa fino all’avarizia e all’opportunismo conservatore, non è solo perché e nemmeno principalmente perché temiamo che altrimenti non venga capita, ma perché, piuttosto, siamo profondamente convinti che la politica migratoria debba essere proprio così: prudente e timorosa e, di conseguenza, restrittiva e selettiva. Un altro esempio: non abbiamo condotto una battaglia intransigente sulle condizioni delle carceri e degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, non perché temevamo di perdere consensi moderati, bensì perché siamo profondamente convinti che i diritti dei detenuti e degli internati, come già  quelli dei migranti, non siano prioritari. O peggio: siano secondari e politicamente e gerarchicamente subordinati a quelli dei cittadini italiani onesti.
Non stiamo dicendo che questa sia l’opinione condivisa. Ci limitiamo a segnalare che questa rischia di essere l’opinione condivisa. È esattamente questo il paradosso di cui dicevamo. Un omaggio ai principi che non si traduce in atti conseguenti e che ci porta non solo a gravi cedimenti politici ma anche a una certa fiacchezza morale.
È accaduto così che non siamo stati in grado di batterci come dovevamo contro la politica dei respingimenti, né di contrastare la tendenza verso uno Stato penale massimo e di denunciare la tragedia delle carceri, ma nemmeno siamo stati in grado e non sembri estraneo a quanto finora detto esigere il pieno rispetto delle garanzie processuali per Ottaviano Del Turco.
Alle cause prima dette ne va aggiunta una congiunturale che ha avuto probabilmente un peso preponderante nell’ultima fase: ovvero la politica penale del governo Berlusconi. A proposito di quest’ultima, ci limitiamo a citare i titoli di alcune misure, soffermandoci su una sola. Ovvero l’estensione (operata dal decreto legge 11/09) della custodia cautelare obbligatoria a una categoria di reati estremamente ampia e comprensiva finanche di reati monosoggettivi.
Reati gravissimi, sia chiaro, ma certamente privi (almeno nella maggioranza dei casi) di quel collegamento con un’organizzazione criminale e di quella forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, che è la prima e principale ragione dell’obbligatorietà  della custodia cautelare e in base alla quale, soltanto, sia la Consulta che la Corte europea dei diritti umani (sentenza Pantano del 2003) hanno ammesso la legittimità  di tale automatismo. E anche l’argomento a favore di quest’ultima previsione è discutibile. Non è in gioco infatti il rigore nel contrasto al crimine organizzato, ma il diritto dell’imputato come tale presunto innocente non pericoloso, a non subire limitazioni della propria libertà  non necessarie rispetto alle esigenze cautelari.
E ora, solo per titoli: la custodia cautelare “speciale” per i reati da stadio (decreto legge 178/2010); l’esclusione dal gratuito patrocinio per i condannati per reati associativi (decreto legge 92/08); aggravante e reato di clandestinità  (decreto legge 92/08 e legge 94/09), 4 bis (decreto legge 11/09) e 41 bis (legge 94/09).
Molte di queste norme sono state peraltro dichiarate incostituzionali, a dimostrazione di come il garantismo sia, oltre che un valore fondante, un principio cui il legislatore deve necessariamente attenersi: un dovere cogente, insomma, prima ancora che una scelta da rivendicare.
Certo, oltre alle norme citate, fanno parte della politica penale del governo Berlusconi anche norme quali la legge ex-Cirielli, che ha reso possibile la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari nel processo Mills. Ma la prescrizione per l’ex premier è solo una delle circa 500 che sono dichiarate ogni giorno. Quindi, o affrontiamo il problema di questa particolarissima “prescrizione silente” riconducendolo all’interno del tema della crisi della giustizia penale,  oppure finiamo per restarne vittime. E in questa prospettiva, l’ipotesi dell’amnistia non appare affatto una scandalosa bizzarria, ma una serissima misura estrema, per una situazione altrettanto estrema.
Ora sembra manifestarsi, sia pure timidamente, quella che potrebbe risultare come una fase nuova. Ancora, in estrema sintesi, sono tre le ragioni per accreditarla. Prima ragione: un clima politico-istituzionale meno febbricitante che consente di guardare al merito dei problemi, rinunciando una volta per tutte a quello che abbiamo chiamato lo “pseudo-Machiavelli”.
Secondo: la cultura giuridica dell’attuale governo e, in particolare, del ministro della Giustizia.
Terzo: i provvedimenti approvati o che il governo si è impegnato ad approvare. In particolare, vi è la concreta possibilità  di ottenere ciò che da tempo si propone ma che non si è mai riusciti ad approvare. Ci riferiamo, in primo luogo, a una politica che va nel senso della decarcerizzazione, ovvero all’estensione dell’ambito di applicazione delle misure alternative alla detenzione (e in particolare la detenzione domiciliare), delle misure cautelari non carcerarie e all’introduzione nel codice della “reclusione domiciliare”, quale sanzione principale da irrogarsi, dunque, dallo stesso giudice di cognizione. Inoltre, vi è la concreta possibilità  di andare verso quanto da vent’anni tutte le Commissioni ministeriali per la riforma del codice penale hanno proposto, ovvero la depenalizzazione dei reati minori.
È una grande occasione e una positiva opportunità  per il Pd. Quelle politiche di decarcerizzazione e di depenalizzazione, possiamo subirle, possiamo accettarle con riluttanza per lealtà  verso l’esecutivo oppure possiamo, finalmente, riconoscerle come proprie della nostra cultura di partito garantista, e farcene, di conseguenza, i più convinti sostenitori. Ne guadagnerebbe la nostra politica e la nostra stessa identità .
Il testo è tratto dall’intervento tenuto ieri durante il seminario «Sul garantismo» organizzato dal Forum Giustizia del Partito democratico.


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