Rabbia anti-Usa: 8 morti

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In Afghanistan si diffonde la rabbia contro la dissacrazione del Corano avvenuta due giorni fa nella base statunitense di Bagram, la più grande del paese, a nord di Kabul. Sono ormai molte, infatti, le città  dove si sono svolte – e si stanno svolgendo – manifestazioni violente, contro la presenza delle truppe internazionali e in particolare degli americani.
La rabbia ha cominciato a montare fin da martedì, dopo che alcuni lavoratori afghani impiegati presso la base di Bagram hanno ritrovato i resti, bruciati, di alcuni testi religiosi, incluso il Corano, gettati nell’inceneritore. Secondo il generale John Allen, capo delle forze Isaf-Nato e americane, si è trattato di un atto «non intenzionale», sul quale ha immediatamente promesso di fare chiarezza. Le scuse sono piovute da tutte le parti, dalla Casa bianca al Pentagono, che ha fatto sapere che «queste azioni non rappresentano la visione dell’esercito degli Stati uniti», e anche il segretario alla difesa Usa, Leon Panetta, è dovuto correre ai ripari, scusandosi «per il trattamento inappropriato» a cui è stato sottoposto il sacro libro dell’Islam. Il generale Allen, rivolgendosi con una lettera ufficiale «all’onorabile popolo afghano», ha assicurato che entro i primi giorni di marzo tutti i circa 130.000 soldati stranieri presenti in Afghanistan saranno addestrati nel trattamento dei libri religiosi.
Troppo tardi, dicono gli afghani che ieri hanno manifestato in molte parti del paese. Il bilancio della giornata è pesante: sono almeno otto, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa Pajhwok, le vittime accertate e una trentina i feriti. Nella provincia di Parwan, dove ha sede la base di Bagram, quattro persone sarebbero rimaste uccise dalla polizia afghana e una decina ferite mentre attaccavano alcuni edifici governativi e della comunità  internazionale; un altro manifestante sarebbe stato ucciso dalla polizia nella provincia di Logar; secondo alcune fonti, almeno una persona sarebbe morta nella capitale, a Kabul, per mano dei contractors che lavorano nella base militare americana di Camp Phoenix, assalita da un gruppo di manifestanti. Manifestazioni imponenti anche a Jalalabad, verso il confine con il Pakistan, dove più di mille persone avrebbero gridato slogan contro gli Stati uniti e contro lo stesso presidente Karzai, inneggiando al leader riconosciuto degli studenti coranici, il mullah Omar, e bloccando l’importante via che collega Kabul a Jalalabad, mentre nella capitale gli impiegati dell’ambasciata americana si sono chiusi all’interno dell’edificio, e tutte le ambasciate occidentali hanno invitato i propri concittadini a evitare qualsiasi spostamento.
L’episodio di Bagram e le reazioni che ha suscitato ricordano gli avvenimenti dello scorso aprile, quando l’Afghanistan si infiammò, alcuni giorni dopo che un pastore della Florida, con un atto provocatorio, bruciò una copia del Corano in diretta tv. Anche allora arrivarono le scuse ufficiali dai quartier-generali della Nato e dal Pentagono. E anche allora tutti assicurarono che episodi simili non si sarebbero più ripetuti. La realtà  è diversa: tra la popolazione afghana e le truppe straniere c’è una distanza ormai irriducibile, una frattura che cresce ogni giorno che passa. Se le aperture verso i movimenti anti-governativi e la decisione di affidarsi al negoziato dimostrano il fallimento dell’opzione militare, l’episodio di Bagram dimostra il fallimento degli strateghi americani. Quegli stessi strateghi che si ingegnano da tempo su strumenti e metodi per vincere «i cuori e le menti» degli afghani, cercando di rendere la popolazione locale più incline ad accettare le truppe d’occupazione. 
Le manifestazioni di ieri, che probabilmente finiranno per investire altre parti del paese, dimostrano una volta per tutte che la guerra degli americani è ormai persa, dal punto di vista militare ma soprattutto simbolico e morale. I soldati stranieri, soprattutto quelli a stelle e strisce, sono percepiti come forze di occupazione: sarà  dura per il presidente Karzai far accettare alla «sua» gente un accordo di partenariato che preveda la presenza a lungo termine di basi militari o corpi speciali sul suolo afghano. Ma il Washington Post dà  per certo che, ritirate le truppe nel 2014, rimarrà  un buon numero di agenti della Cia. Con libertà  assoluta.


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