Se la tassazione progressiva scivola dalla giustizia alla punizione sociale

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È giusto che si vada incontro ai redditi che fanno fatica a mettere assieme la colazione di mezzogiorno col pranzo della sera. È sbagliato che — senza elevare significativamente chi ha meno — si tenga giù chi ha poco di più. Così, si ha un livellamento verso il basso invece che verso l’alto. Penso all’impoverimento economico subito dagli insegnanti — che ne ha mortificato persino lo status sociale — lasciati in balia di massimalismi e avventurismi ideologici. 
La tassazione progressiva è uno dei capisaldi della società  liberale; ma, agli attuali livelli, non è un veicolo di giustizia, bensì di penalizzazione sociale. La democrazia dovrebbe portare il maggior numero di cittadini a un livello di vita migliore — anche se le distanze di reddito dovessero restare le stesse o, addirittura, aumentare — non evitare che qualcuno migliori le proprie condizioni come se il miglioramento degli uni andasse a detrimento degli altri. La redistribuzione della ricchezza per via fiscale — che non è il sostegno ai meno abbienti attraverso ilwelfare, ma la confisca, da parte della politica, di reddito prodotto per farne uso improprio — e la conseguente pauperizzazione del ceto medio sono la peggior politica che una democrazia liberale può praticare se vuole sopravvivere. È l’eguaglianza, nella generale carestia, del socialismo reale cui il «compromesso socialdemocratico» fa il verso. Le diseguaglianze di condizione — frutto della «società  aperta» dove le capacità  individuali legittimano le disparità  di reddito e si concretano nelle diverse classi sociali — sono nella natura della democrazia liberale. Non ne sono una distorsione, la «dittatura della borghesia». Sono il segno di un merito, non di un privilegio. Cercare di annullarle attraverso la tassazione è ripudiare la stessa democrazia liberale in nome di un egualitarismo, «di fatto» impossibile, e realizzabile «in diritto» solo con la negazione della libertà  di ciascuno di elevare, con le proprie forze, le proprie condizioni sociali. Dove si è creduto di cancellare il pluralismo di classi è nata una classe unica; non più fondata sul reddito, ma sul potere, sulla nomenklatura politica e sullo Stato totalitario. 
Dopo l’Unità , con il buongoverno e la disciplina (finanziaria) della destra storica, il ceto medio si era avviato a diventare classe dirigente. A Roma, i «quartieri dei piemontesi» — calati nella capitale a costituire il primo nucleo della burocrazia statale — con i loro bei palazzi borghesi, sono la testimonianza dell’Italia civile; così come i «quartieracci» della speculazione edilizia postbellica sono quella del suo degrado. Un ceto medio consapevole del proprio ruolo sociale e politico è la spina dorsale di ogni democrazia matura. Con la caduta della destra storica e l’avvento al potere della sinistra, ancorché pur sempre liberale (1876), l’irruzione nella vita del Paese di un ceto affaristico, opportunista, collaterale alla politica aveva posto termine a tale evoluzione.
Il primo bilancio di segno negativo dello Stato è del 1878. Il giolittismo, con l’allargamento del governo liberale ed elitario ai cattolici e ai socialisti, era stato l’ultimo tentativo di riportare il Paese sulla giusta strada. Ma, il fascismo, prima — non a caso, la degenerazione del ceto medio in rappresentazione dello «spirito del capo» — poi, dopo la felice parentesi degasperiana e einaudiana, l’occupazione delle istituzioni da parte della partitocrazia hanno completato la distruzione dell’Italia del juste milieu cavouriano. 
Ciò che chiamiamo «carenza di senso dello Stato» è il riflesso della mancata trasformazione del ceto medio in classe dirigente. Privo di rappresentanza politica — il Popolo della libertà  e il Partito democratico paiono incapaci di esserlo e i partiti minori non sono da meno — esso, massacrato dalle tasse, identifica oggi nello Stato «il nemico». Non è un buon segno, anche se il tempo in cui si era rivoltato contro la democrazia è, a sua volta, tramontato. Lo Stato, nella cultura democratico-liberale, non deve essere percepito dal cittadino come un nemico. È piuttosto, il garante e il regolatore, il vigile urbano della metafora che regola, al crocicchio, il traffico sociale e senza il quale «l’uomo è lupo dell’uomo». Le libertà , compresa quella economica, sono «un fatto giuridico»; lo Stato è «Stato giuridico»; e il governo è «governo della legge». Non scordiamocelo tutti.


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