Siria Punizione collettiva

by Editore | 28 Febbraio 2012 9:34

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Il cadavere, già  cereo, fasciato nel sudario, con una corona di fiori di plastica intorno alla testa, riposa in un angolo della moschea. Inginocchiato accanto al catafalco, un ragazzo in lacrime, suo fratello, gli accarezza il viso con tenerezza infinita. Il morto aveva tredici anni. La notte precedente stava spaccando legna sulla soglia di casa. Lo racconta suo padre, con gli occhi gonfi, ma dritto e composto, circondato da amici e parenti: «Deve essersi fatto luce con il cellulare, credo. E il cecchino lo ha colpito». Non è stato né un incidente né un caso. La via in cui abita è tenuta incessantemente sotto tiro da quel cecchino che, appostato nella scuola del quartiere, quando non trova altri bersagli si esercita sui gatti. «Non abbiamo nemmeno più il coraggio di portare fuori la spazzatura», aggiunge un vicino. Un altro mi mostra, sul cellulare, il cadavere del fratello, ucciso mentre proteggeva il figlio di undici anni; poi mi spiega che ha dovuto sfondare il muro tra il suo appartamento e quello confinante per poter uscire senza esporsi. 
Quella mattina erano stati Abu Bilal, Abu Adnan e Omar Telaui, tre militanti dell’informazione, a portarci al funerale del bambino. È il 26 gennaio. Dopo le esequie ci ammassiamo in sette sulla loro auto per proseguire verso un quartiere più a est, Karam al-Zeitoun. Sui viali, le shawari al-maut o “strade della morte”, come le chiama la gente, l’autista accelera a tavoletta per evitare i proiettili. E appunto, davanti a noi sparano. Svoltiamo bruscamente in un vicolo. Alcuni passanti corrono, altri aspettano sul bordo del viale, al riparo. Piombiamo in un centro sanitario improvvisato. Il personale sta attorno a un ragazzo a cui un proiettile ha attraversato la base del cranio. Lui si inarca, vomita un fiotto di sangue, si raddrizza, vomita di nuovo. Chi lo assiste, che non è nemmeno un medico, non può fare niente: gli viene fasciata la testa alla meglio e lo ficcano su un taxi per mandarlo in una clinica. Un testimone racconta: la vittima, ventisette anni, stando alla carta d’identità , è rimasta ferita non lontano da lì, davanti alla moschea Said ibn Aamir, mentre portava dei medicinali ai genitori; un’ora prima un uomo era stato ucciso all’uscita dalla stessa moschea, il collo trapassato da un proiettile.
Il testimone non fa nemmeno in tempo a concludere il suo racconto che già  portano altri due feriti, un uomo di una certa età  colpito alla parte superiore del petto e una donna velata che strabuzza gli occhi, terrorizzata, con la mandibola distrutta da un proiettile. È stato lo stesso cecchino, mira sempre al collo, la donna ha avuto fortuna. L’uomo, invece, ansima stringendo convulsamente la mano del nostro fotografo; viene evacuato anche lui su un furgoncino, con un amico che regge la fleboclisi. Gli attivisti filmano, Omar commenta la scena per la videocamera, sguazziamo nel sangue, Abu Bilal si stringe la testa tra le mani, già  con i nervi a pezzi. Ed è solo l’inizio. Mentre intervistiamo alcuni testimoni a casa del responsabile del centro, altri colpi di clacson; torniamo indietro di corsa. Regna il caos. I due feriti che si era tentato di far ricoverare sono stati riportati, morti; il personale sanitario si adopera attorno a tre persone, colpite da una granata davanti a un altro centro di soccorso; sul tavolo, un quarto uomo muore sotto i miei occhi, con un breve sussulto, senza che io nemmeno me ne accorga. Cerco di fare qualche domanda a uno dei feriti, ma in quel momento portano un bimbo piccolo, ferito all’inguine.
Per strada, più avanti, c’è agitazione. Un attacco, una granata? Accorriamo tutti. Quando arrivo, trovo Mani appiattito contro il muro; un gruppo di scalmanati gli impedisce di fotografare. «È un shabiha» riesce a dirmi. «Lo stanno linciando». Gli shabiha sono miliziani, per lo più alauiti, che il regime ha reclutato per i lavori più sporchi sin da quando è cominciata la rivolta. Al limitare dei quartieri alauiti di Homs i loro posti di blocco mitragliano senza tregua le vie sunnite, facendo vittime ogni giorno; i testimoni parlano anche di stupri, di torture, di altre atrocità . Mentre i soldati, e persino i mukabarat, catturati dai ribelli vengono reclutati o scambiati, gli shabiha che cadono nelle loro mani sono giustiziati d’ufficio. Quando riusciremo finalmente ad andarcene dal quartiere, a prezzo di un tragitto troppo lungo sul viale dei cecchini, scorgerò per caso quello shabiha – nudo, coperto di sangue, le mani legate, la testa fracassata – portato in trionfo su un pick-up dell’esercito libero, tra gli “Allahu akbar” della popolazione.
Tre giorni dopo, di domenica, le stesse scene di massacro si ripropongono ad al-Bayada, roccaforte dell’opposizione nella zona nord della città . Questa volta non dovremo nemmeno uscire dall’edificio in cui abitiamo: il centro di soccorso è al pianterreno. Il primo ferito arriva appena prima di mezzogiorno, con l’addome perforato da un proiettile mentre tentava di proteggere i suoi figli dai colpi di un cecchino nascosto sul tetto dell’ufficio postale del quartiere; lo segue il figlio, con due dita amputate. Ci viene detto che nello stesso posto è già  stato ucciso un altro uomo. Due ore dopo tocca a un bambino di dieci anni, dai folti capelli neri che accarezzo mentre il medico gli lega le mani con strisce di garza. Il proiettile che gli ha attraversato il petto lo ha ucciso sul colpo. Il cugino guarda il piccolo corpo e singhiozza: «Sia gloria a Dio, sia gloria a Dio». Prima che scenda la notte ne arriverà  ancora uno, un uomo colpito ai polmoni che sopravvivrà  per un pelo. Nei pressi di un grande viale mi mostrano una lunga asta di metallo con un uncino saldato all’estremità : serve a recuperare i feriti, e i morti. I cecchini sparano su chiunque, donne, bambini, soccorritori: così, senza un motivo, senza nessun motivo. Tranne punire il popolo recalcitrante dei quartieri in rivolta, colpevole collettivamente di non volersi piegare, e obbedire in silenzio al suo signore e padrone.
Volevo assistere al funerale del bambino, che si chiamava Taha, ma non si è potuto svolgere prima della mia partenza: i mukabarat trattenevano il suo cadavere all’obitorio finché il padre non avesse firmato una dichiarazione, attestando che era stato ucciso da “terroristi”, cioè dall’Esl, ovviamente. Ma c’è di peggio. Il giorno dei massacri a Karam al-Zeitoun, nel pomeriggio, i militanti apprenderanno che un’intera famiglia è stata assassinata in casa sua, nel quartiere di Nasihine. A tarda sera Mani esce di nuovo con alcuni soldati dell’Esl per fotografare i cadaveri: undici persone, tra cui cinque bambini, tre con la gola tagliata. Era una famiglia sunnita che abitava al limitare di un quartiere alauita; le testimonianze raccolte da Mani fanno pensare a una provocazione di carattere confessionale. Contemporaneamente è avvenuto un altro massacro: una famiglia di sei persone, tra cui quattro bambini, tutti uccisi con un colpo in testa o in un occhio; ma i corpi non potranno essere recuperati prima del lunedì successivo a causa di violenti scontri nella città  vecchia.
La sera del massacro di Nasihine l’Esl ha organizzato un’operazione di rappresaglia. Ma si è preoccupato di attaccare soltanto obiettivi militari: i posti di blocco che avevano coperto la fuga degli assassini e un edificio della sicurezza militare. Gli ufficiali dell’Esl, come i militanti, fanno di tutto per evitare una deriva settaria della rivoluzione. «Siamo consapevoli che il regime gioca la carta dello scontro confessionale», mi spiegherà  Muhannad al-Umar, uno dei capi del Consiglio militare di Baba Amr. «Sì, se la rivolta continua, è probabile che si vada verso un conflitto religioso perché la comunità  alauita appoggia inequivocabilmente il regime. Se invece il regime cade, non ci saranno rappresaglie. Chi ha ucciso verrà  giudicato, ma la comunità  alauita parteciperà  dei benefici, come tutti i siriani. Non la si può cancellare. Fa parte della società  siriana, come noi».
Nessuno nega che civili alauiti siano già  stati vittime di rapimenti – spesso per essere usati come moneta di scambio – o di uccisioni. I militanti con cui ho parlato scaricano la responsabilità  su gruppuscoli fuori controllo, in particolare famiglie beduine, una comunità  in cui la tradizione della vendetta di sangue è fortemente radicata; nonostante tutti i tentativi di mediazione, né l’Esl né gli attivisti civili riescono a impedire ai beduini di vendicarsi su alauiti innocenti, soprattutto quando le loro donne o i loro figli vengono uccisi o stuprati. Ovviamente, il regime approfitta di questi abusi per definire terroristi i suoi avversari. Ritengo tuttavia che vada fatta una distinzione tra una politica sistematica, quella del regime che fomenta lo scontro etnico e provoca massacri confessionali, e l’impotenza di autorità  embrionali, sotto pressione, che non riescono a controllare gli elementi più estremisti del proprio schieramento.
Ad al-Bayada, poco dopo la morte di Taha, ho incontrato un cineasta di Damasco. «Che ci sia uno scontro religioso è innegabile», ammette. «Su entrambi i fronti si parla seriamente di pulizia etnica. Ma è circoscritto a Homs, altrove non è così. Io sono un laico. Ho il dovere di stare qui: se non sto qui, questa diventa una guerra tra fazioni religiose. Se la situazione evolve positivamente, se prevale una versione migliore della rivoluzione, Homs potrà  essere tenuta sotto controllo». Una scommessa che si è ben lontani dall’avere vinto. Da quando sono partito, il 2 febbraio, Homs subisce quotidianamente massicci bombardamenti che hanno già  causato oltre 718 morti, secondo le stime dall’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo. Le comunicazioni sono quasi completamente interrotte, manca il pane, i centri sanitari sono sommersi di feriti. L’Occidente e la Lega araba, impotenti di fronte al veto di Russia e Cina, parlano di caschi blu, di corridoi umanitari. Il che rievoca brutti ricordi. Tra il 1993 e il 1995, quando ero in Bosnia, più di 80.000 persone sono morte sotto gli occhi dei giornalisti e dei cooperanti del mondo intero, nonché dei caschi blu, il cui mandato permetteva loro di sparare solo ai cani rabbiosi. Se non si ha niente di meglio da proporre ai siriani, tanto vale abbandonarli al loro destino. Sarebbe più onesto.
Traduzione Margherita Botto
© Jonathan Littell (testo)

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