Somalia, il Paese che non c’è

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Il Failed States Index – indice degli stati falliti – classifica dal 2008 la Somalia come il paese più disastrato del mondo, più dell’Afghanistan e dell’Iraq. Anche i suoi vicini, che la carestia del 2011 ha reso fragili, presentano una situazione a rischio. Anche l’Etiopia e l’Eritrea, le altre due ex-colonie italiane del Corno d’Africa, versano in una condizione di preoccupante povertà . Secondo le stime delle agenzie di aiuto internazionale, la popolazione somala conterebbe appena 10milioni di abitanti, di cui quasi la metà  sarebbe stata minacciata dalla crisi alimentare prodotta dall’ultima carestia. Per la stampa occidentale l’interesse per la Somalia si ferma tuttavia a tre argomenti: la pirateria nel Golfo di Aden, una minaccia agli approvvigionamenti petroliferi e al commercio dei paesi occidentali che ha portato al dispiegamento di un’ingente flotta di navi da guerra; l’immigrazione clandestina, ampiamente documentata a causa della morte di miglia di migranti nel Mediterraneo; e infine la «minaccia» del terrorismo internazionale, legata alle milizie islamiche di Al-Shabaab, il cui potere sembra ormai sotto attacco.
Cerchiamo di inquadrare il tema con Matteo Guglielmo, giovane dottore di ricerca all’ «L’Orientale» di Napoli, che ha dedicato, nel 2008, un libro alle «ragioni storiche del conflitto» in Somalia, e ne prepara un secondo sulla geopolitica del Corno d’Africa. È inoltre l’animatore del sito insidehoa www.insidehoa.it, dedicato alle vicende politiche di questa regione. 
La Somalia, sotto protettorato dal 1889, diventerà  una colonia nel 1905, prima di essere integrata nell’Africa Orientale Italiana dal 1936 al ’41. Quali cambiamenti appaiono durante l’età  coloniale?
La presenza italiana in Somalia si può misurare in due modi, da un punto di vista fisico (infrastrutture, comunità  italiana presente nel paese, ecc), e da quello socio-culturale. In entrambi gli ambiti, l’impatto italiano fu piuttosto limitato, anche se le conseguenze della colonizzazione furono tante e gravi. Essendo un rapporto tra colonizzatori e colonizzati, e dunque tra dominanti e dominati, le relazioni tra gli italiani e i somali furono sempre limitate allo «stretto necessario», e gli autoctoni non ricoprirono mai ruoli di responsabilità  nell’amministrazione coloniale. Basti pensare che ai somali non era permesso proseguire gli studi dopo la terza elementare, segno di una precisa volontà  italiana a voler mantenere la popolazione in uno stato di assoggettamento. La presenza italiana si differenziava molto tra centro e periferia. Ad esempio a Mogadiscio e nelle maggiori cittadine del centro-sud, la comunità  di italiani era più presente, e l’amministrazione coloniale gestiva direttamente il territorio. Cosa diversa nell’entroterra e nelle regioni più periferiche, dove il controllo del territorio era scarso o «mediato» da capi locali che agivano come intermediari tra gli autoctoni e l’amministrazione. La Somalia fu la più povera delle colonie italiane, anche perché eccezion fatta per le regioni tra i fiumi Giuba e Shabelle, dove fu introdotta una qualche forma di sfruttamento agricolo, ben poco si fece per organizzare veri e propri apparati produttivi. La Somalia servì agli italiani per lo più come apripista per la conquista dell’Etiopia del 1936, e fu dunque un territorio strategico solo da un punto di vista geopolitico. L’introduzione delle leggi razziali nel ’39 sancì anche nelle colonie un regime di apartheid, che era comunque presente in via per lo più informale ben prima della loro approvazione ufficiale. In Italia ben pochi erano a conoscenza di ciò che accadeva in colonia, anche per la totale assenza di programmi o borse di studio elargite dal governo italiano a favore di somali, etiopi ed eritrei. L’assenza di comunità  somale presenti in Italia è come se avesse nascosto l’esistenza stessa delle colonie all’opinione pubblica italiana. Ed è per questo che, una volta terminata l’esperienza coloniale nel 1941, non fu particolarmente difficile per la politica italiana omettere e nascondere lo scomodo passato coloniale. Il recupero della memoria coloniale è la prima sfida che deve affrontare l’Italia di oggi.La Somalia diviene indipendente nel 1960. Come si apre all’esperienza democratica, e come gestisce all’inizio i rapporti con le ex potenze coloniali, le ex colonie che la circondano? Il paese ha subito il sentimento di un’unità  incompiuta?
Diciamo che l’indipendenza somala fu in apparenza «indolore», in quanto mediata da un mandato che l’Assemblea delle Nazioni unite aveva conferito all’Italia, unico caso nella storia dell’Africa sub-sahariana. Tuttavia, proprio questa indipendenza gestita «dall’alto» sarebbe diventata un forte elemento di destabilizzazione, sia nazionale sia regionale. I primi problemi relativi all’indipendenza emersero tra il 1949 e il ’53, con il passaggio all’Etiopia dell’Ogaden, dell’Haud e delle Aree riservate (una striscia di terra ai confini tra l’ex-Somalia britannica e l’Etiopia). Queste terre erano abitate da somali, e sotto il dominio italiano, ovvero fino al 1941, erano state incluse in un’unica sotto-amministrazione che raggruppava quelle popolazioni di etnia somala dell’Africa Orientale Italiana. La delusione dei somali per il passaggio delle terre irredente all’Etiopia, dove nel frattempo era stato nuovamente restaurato l’imperatore Haile Selassie, fu enorme. La Gran Bretagna aveva più volte lasciato intendere la volontà  di creare una «grande Somalia», ma la necessità  di preservare i rapporti con il Kenya, che raggiungerà  l’indipendenza solo nel 1963, e con l’Etiopia, considerata anche dagli Stati uniti il pilastro per il sistema di alleanze occidentali nel Corno d’Africa, portò gli attori internazionali a sacrificare le aspettative somale, spargendo i primi semi delle crisi che sarebbero esplose negli anni. Il problema somalo non nasce tanto da un’unità  incompiuta, ma piuttosto da un processo di autodeterminazione diretto dall’esterno e avvenuto in modo troppo «mediato», senza un reale distacco – anche violento – dall’esperienza coloniale. 
Nel ’69, l’anno del colpo di stato del colonnello Gheddafi in Libia – un’altra ex-colonia italiana – il generale Mohamed Siad Barre s’impadronisce della Somalia. Tiene il potere fino al ’91, anno in cui l’Eritrea diviene indipendente dopo una guerra di liberazione trentennale contro l’Etiopia. Quest’ultima, orfana del Negus Halié Selassiè, rovesciato da una giunta militare nel ’74, si ritrova come la Somalia sotto l’influenza sovietica. La guerra del ’77, che oppone l’Etiopia alla Somalia per la conquista dell’Ogaden, costringe Mogadiscio a rompere con l’Urss, per riavvicinarsi agli Usa. In che modo il dominio di un partito unico e l’onnipotenza di uno stato militare influenzano l’esplosione dell’identità  nazionale somala?
Il golpe militare del 21 ottobre 1969 segna una svolta per la Somalia. L’ispirazione al modello marxista-leninista del regime di Siad Barre fu però un tratto di sola facciata, ben altri furono gli interessi che perseguì il nuovo governo somalo. I rapporti con l’Unione sovietica sono precedenti all’ascesa al potere di Barre, e risalgono al ’64, anno del primo conflitto somalo-etiopico in Ogaden, quando il governo somalo – non riuscendo a ottenere forniture militari dagli Usa e dall’Italia – ottenne dal Cremlino un accordo di cooperazione economica e militare. Siad Barre, pur rafforzando l’allineamento al blocco socialista, non trascurò mai le relazioni con alcuni attori occidentali. Le relazioni con l’Italia restarono piuttosto solide, mentre dal ’74, grazie all’adesione alla Lega araba, il governo somalo cominciò a intrattenere ottime relazioni anche con i paesi arabi. Non fu tanto attraverso il partito unico che Siad Barre cercò di incrementare il nazionalismo somalo, ma piuttosto attraverso alcune campagne politiche, come quella anti-tribale dell’Ololeh, che letteralmente significa «bruciare». Secondo Barre, per forgiare un’identità  nazionale somala andavano inceneriti i legami clanici che rendevano la società  divisa e troppo frammentata. Il sogno di una «grande Somalia» si infranse in Ogaden. Per sostenere le attività  belliche furono mobilitate ingenti risorse. Nel ’78, a seguito della sconfitta somala per mano di un’Etiopia sostenuta dall’aiuto militare sovietico-cubano, la Somalia si trovò priva di risorse economiche e con uno smisurato flusso di profughi provenienti dalle zone del conflitto. In quel periodo si cominciò a sfaldare non solo lo stato e le istituzioni, ma anche il sogno nazionalista che per anni il regime di Barre tentò di cavalcare per prevalere sullo storico nemico etiopico e preservare il potere nel paese. Negli anni ’80 la Somalia scivolò in un lento declino, che portò la giunta militare ad aumentare la repressione verso i nascenti movimenti di opposizione armata a Siad Barre, e a trasformarsi essa stessa «fazione» clanica. Il collasso dello stato somalo del gennaio ’91 ha radici profonde. A cadere non furono solo le istituzioni di uno stato, ma anche la società , ormai divisa su linee claniche. Il ruolo del clan (qabiil in somalo) è importante per comprendere le caratteristiche del conflitto civile che scaturì dal collasso dello stato, ma è forse ben più rilevante capire come il conflitto ha mutato il ruolo dei legami clanici.
Nel 1992, gli Stati Uniti lanciano l’operazione Restore Hope. Il 3 e 4 ottobre, una missione di volta a catturare il famigerato signore della guerra Mohamed Farah Aidid si trasforma in un incubo. Un migliaio di Somali, per di più civili, viene ucciso durante gli scontri, ma l’opinione pubblica Usa considera solo la perdita di 18 soldati americani che muoiono nello scontro a fuoco. Le forze dell’Onu si sostituiscono a Restore Hope, restando nel paese fino al ’95, quando la Somalia sprofonda nel caos. Il Somaliland aveva proclamato la sua indipendenza nel ’91, e il Puntland si dichiara territorio autonomo nel ’98. Dal 2006 la guerra civile riprende con più forza, mentre gli interventi esterni si moltiplicano, prima quello etiopico, poi quello ugandese sotto mandato dell’Unione africana, e adesso quello keniano, per la prima volta nella storia stranamente pacifica di questo paese. A tutto questo si aggiunge una carestia che ha provocato 30mila morti solo l’anno scorso. Se la comunità  internazionale torna a intervenire, non possiamo che constatare che gli interessi economici le attività  di intelligence non sono mai sparite dal territorio. In che modo i giochi economici e politici possono rallentare o favorire una ristrutturazione del paese?
La Somalia oggi non esiste. Sulla carta c’è un governo e una bandiera, ma il territorio è frammentato in varie realtà  amministrative e di potere. La crisi somala è un problema di molti, la crescita di movimenti neo-fondamentalisti come al-Shabaab e l’aumentare degli attacchi dei pirati a largo delle coste della Somalia centro-settentrionale sono tuttavia questioni che sembrano preoccupare più «noi» che «loro». La guerra al terrore, l’ascesa della pirateria e la carestia, sono solo i risultati della crisi, e non la causa.


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