A Birobidzhan!A Birobidzhan!

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hi conosce il Birobidzhan, la repubblica autonoma ebraica creata nel 1932 da Stalin, in Siberia, sul fiume Amur, di fronte alla Cina? Nella mia cerchia di conoscenze, nessuno. Io stesso, che pure ne avevo sentito parlare, la credevo scomparsa da tempo. E invece una sera, a Mosca, con mio grande stupore, vedo un telegiornale che racconta della visita ufficiale del presidente della Federazione russa Dmitrij Medvedev a… Birobidzhan. Non credo ai miei occhi: c’è una delegazione, di cui fanno parte anche due rabbini, ad accoglierlo. Insieme visitano la sinagoga e assistono a un matrimonio ebraico. In questo inizio di XXI secolo, il Birobidzhan esiste ancora e la sua lingua ufficiale è lo yiddish, la mia lingua madre! Sono nato in un mondo che pensavo ormai risucchiato dalle acque, come Atlantide. Ho sempre sognato di mostrare quel mondo al mondo e di apostrofare i miei contemporanei: «Guardate! Guardate quelle persone, ascoltatele. La lingua che sentite, lo yiddish, oggi non la parla quasi più nessuno. Quando ero bambino era parlata da più di undici milioni di persone». Ed ecco che vengo a sapere che esiste un posto dove lo yiddish è ancora parlato, dove è addirittura insegnato. Come avrei potuto non precipitarmi laggiù? Ci sono andato in treno, novemila chilometri da Mosca, come gli ebrei degli Anni ’30. Novemila chilometri sono tanti, ma a differenza di quelli che li percorsero a bordo di vagoni merci appena riadattati, equipaggiati con grandi stufe centrali che bisognava alimentare con ciocchi di legno ammassati nelle stazioni, io viaggio sul Transiberiano, con quattro cuccette per scompartimento coperte da vecchi materassi a righe. «Dove va?» mi domanda con curiosità  il controllore capo vedendo che sono accompagnato da un fotografo e da un’équipe televisiva. «A Birobidzhan». «Ah, gli ebrei!», fa lui. E aggiunge, non molto fiero: «Da noi perfino gli ebrei hanno la loro repubblica». Due minuti più tardi ritorna con una divisa nuova di zecca sperando di farsi fotografare. La stazione di Birobidzhan è un casermone in mattoni rossi, con un’insegna, bene in vista, in russo e in yiddish. Speravo di incontrare qualche ebreo sul binario. Ne intravedo tre nell’atrio, con la kippah sulla testa. Mi avvicino. Mi presento e chiedo di cosa stanno parlando. Stanno discutendo del nuovo rabbino, troppo giovane secondo loro. Scoppio in una risata tinta di infinita nostalgia, tanto quanto questi ebrei di Birobidzhan assomigliano agli attori del teatro yiddish della mia infanzia. Quanti ebrei sono rimasti a Birobidzhan, in questa città  di settantasettemila abitanti? Non lo sa nessuno. Ufficialmente ottomila, ma un abitante su due ha una bisnonna o un prozio ebrei, compresi i numerosi coreani e cinesi. Allo scoppio della rivoluzione bolscevica, gli ebrei nell’impero dello zar erano quasi cinque milioni. Cinque milioni confinati in zone di residenza, banditi dall’amministrazione pubblica e dalle scuole. Eppure si organizzarono, crearono le loro scuole e i loro sindacati, ma restavano i più poveri dei poveri, i più sfruttati degli sfruttati. Il giorno in cui i commissari bolscevichi li chiamarono «compagni», in yiddish, si sentirono finalmente riconosciuti e aderirono in massa alla Rivoluzione. A partire dagli Anni ’20 e ’30 li si ritrovava in tutte le istituzioni della nuova Russia: la politica, i giornali, la letteratura e il cinema, il teatro e le arti plastiche. I più grandi si chiamano Sergej Ejzenstein, Isaac Babel, Boris Pasternak, Marc Chagall, El Lissitzky, Ossip Mandel’stam, Vasilij Grossman, Mark Donskoj, David Ojstrach, Emil Gilels, Alexis Granowsky, Solomon Michoels…Perfino la sorella maggiore di Lenin, Anna Uljanova, raccontava a chi voleva saperlo che il loro nonno materno, figlio di Moise Blank, di Zhitomir, era ebreo. Stalin si affrettò a far scomparire questa informazione. Cominciava a trovare i suoi amici ebrei troppo vistosi. E troppo irrequieti. Il presidente del Soviet supremo, il vecchio Michail Kalinin, ebbe un’idea. Perché non regalare agli ebrei una repubblica, una regione autonoma come tutti gli altri popoli dell’Unione Sovietica? In questo modo i loro diritti sarebbero stati garantiti e le autorità , senza essere tacciate di antisemitismo, avrebbero avuto la possibilità  di rimuoverli dai numerosi posti di responsabilità  che occupavano nelle varie repubbliche. Gli ebrei si rallegrarono del progetto. Speravano nel Caucaso e invece ricevettero un pezzo di Siberia, una regione alla frontiera con la Cina, sul fiume Amur, che si chiamava Birobidzhan. Le autorità  ci spedirono migliaia di famiglie ebree: Stalin prevedeva centomila persone. Molti partirono volontariamente. Uno Stato ebraico, e per di più socialista! Mancavano ancora quindici anni alla proclamazione dello Stato di Israele. Per opporsi all’ebraico raccomandato dai sionisti, che i comunisti all’epoca consideravano la lingua della sinagoga, il governo dichiarò lo yiddish, la lingua del proletariato ebraico, idioma ufficiale del Birobidzhan. La guerra e le persecuzioni degli ebrei in Europa e nella parte di Russia occupata dai nazisti spingono migliaia di ebrei verso il Birobidzhan, l’Israele siberiana, come alcuni la chiamano all’epoca. La vita culturale si sviluppa. L’agricoltura anche. Il kolchoz Waldheim (“La casa della foresta”) diventa uno dei più esemplari di tutta l’Unione Sovietica. Nasce addirittura, negli Stati Uniti, un’associazione per aiutare gli ebrei del Birobidzhan. La diaspora acquista con entusiasmo macchine agricole e medicinali che spedisce ai suoi fratelli in Siberia. Centinaia di ebrei americani, francesi, argentini, in maggioranza comunisti, raggiunsero il Birobidzhan per partecipare a questa prima avventura nazionale ebraica. Ben presto le purghe staliniane frenarono questo slancio generoso. Diciassette anni dopo, nel 1953, la morte del padrone del Cremlino aprì le porte del Birobidzhan. Gli ebrei sovietici partono in massa verso Israele, svuotando progressivamente la regione autonoma della sua sostanza ebraica. La lenta agonia del Birobidzhan, sommata alla scomparsa delle comunità  ebraiche dell’Europa centrale, segnò la fine della cultura e della lingua yiddish. Mi sembrava di essere il testimone della sparizione definitiva di quel mondo di cui anch’io, con la mia memoria, la mia tradizione e il mio accento, faccio parte. Appena usciti dalla stazione, capiamo subito dove ci troviamo: c’è un monumento che domina la piazza, una menorah, il candelabro a sette braccia che è anche l’emblema della regione, appollaiata in cima a una sorta di torre. Qualche metro più in là , un’imponente scultura in bronzo che rappresenta l’eroe popolare ebraico inventato da Sholem Aleichem: Tewje il lattivendolo. In città  ci sono due sinagoghe. La prima, quella grande, è affiancata da un altro edificio che ospita un centro culturale e un’associazione di beneficenza. Nella biblioteca trovo, con emozione, i libri di poesie di mia madre. Al primo piano una dozzina di donne si riuniscono tre volte la settimana per cantare delle melodie tradizionali yiddish. La seconda sinagoga è un’isba (tipica casa di campagna russa, ndr) degli anni ’40. Ce n’era anche una terza, più antica, ma è stata distrutta da un incendio. «Era all’epoca di Krusciov», mi dice il rabbino Andrej Lukatski. «Non è da escludere che si sia trattato di un incendio doloso». Il rabbino mi racconta che suo padre riuscì a salvare dalle fiamme i rotoli della Torah, rotoli che lui è riuscito a far restaurare grazie all’aiuto della vicinissima comunità  ebraica giapponese. «Li vuole vedere?». Siamo nella sua sinagoga, la sua isba, ornata di un’enorme stella di David intagliata nel legno. All’interno, su una panca, addossata al muro, la moglie del rabbino e tre vecchie signore che in inverno vengono qui a riscaldarsi. Il rabbino prende un mazzo di chiavi e apre non l’armadio che tradizionalmente ospita i rotoli della Torah, ma una cassaforte. Commosso, lo aiuto a togliere la mantellina di velluto elegantemente ricamata che protegge i rotoli. Il rabbino ha due figli adulti in Israele. Gli chiedo: «E lei, perché non ci va?». Il rabbino si meraviglia della domanda: «E chi custodirà  la sinagoga?». «E quando lei sarà  morto?». Andrej Lukatski mi racconta che ha un terzo figlio di sei anni, e che l’ha concepito, insieme a sua moglie, perché si faccia carico della tradizione quando lui non ci sarà  più. «Il ricambio è assicurato», dice soddisfatto. L’ex attrice Polina Moissenevna Kleinerman ci tiene a cantare per me Mein yiddische Mame, “La mia mamma ebrea”. Non ha più voce, ma le restano i gesti e la mimica. La ascolto e piango. È in compagnia di questa piccola comitiva che visito il vecchio cimitero di Birobidzhan. Polina Kleinerman non ha dimenticato di portarsi dietro una busta riempita di sassolini, in modo che ognuno di noi, secondo la tradizione ebraica, possa lasciarne uno sulle tombe a testimonianza del suo passaggio. Birobidzhan non è soltanto una città . È una vasta regione, grande il doppio del Belgio, annunciata al suo ingresso da un edificio monumentale con un’iscrizione in caratteri cirillici ed ebraici. I kolchoz ormai sono chiusi, come in tutta l’Unione Sovietica, ma alcuni ebrei hanno acquistato dei pezzetti di terra che continuano a coltivare. Ziama Michailovic Geffen ha novantadue anni. Sta appoggiato a un bastone mentre ci mostra il suo cortile e le sue capre. «Capiscono lo yiddish!», dice ridendo. Il suo occhio azzurro si anima quando rievoca il suo arrivo nella regione. Era proprio all’inizio, negli Anni ’30. Aveva undici anni. «Non c’era niente qui, nient’altro che la taiga. Abbiamo fatto tutto noi. Abbiamo dissodato i campi, costruito la città , la stazione, le scuole. Abbiamo perfino lanciato un giornale…». Il Birobidzhaner Stern, “La stella di Birobidzhan”, esiste ancora. Originariamente era un quotidiano, pubblicato integralmente in yiddish. Oggi è un settimanale in russo, con soltanto quattro pagine in yiddish. La direttrice non è ebrea. Elena Ivanovna Sarashevskaja, che ha appena trent’anni, ha sposato un ebreo e ha imparato lo yiddish all’università . Quanti lettori ha il giornale? Non sa rispondere. La tiratura è di cinquemila esemplari venduti nelle edicole. Ne compro due copie come ricordo. Dopo aver scelto due riviste in russo un uomo, piuttosto giovane e biondo, ne prende una copia anche lui. Gli chiedo se è ebreo. «No. Lo pensa perché ho comprato il Birobidzhaner Stern? Lo compro tutte le settimane. Mi piace sapere che succede tra gli ebrei. Con loro c’è sempre da imparare…». La sua risposta mi ricorda quell’altro abitante del Birobidzhan che cercava della vodka kasher al mercato. Quando gli ho chiesto il motivo, mi ha risposto: «Se è una vodka ebraica, sicuramente dev’essere più buona». È forse questo il motivo del successo della trasmissione Yiddishkeit (“Ebraicità “), che va in onda sulla televisione locale e che offre un’introduzione alla cultura e alle tradizioni ebraiche? «Prima», mi dice Tatjana Kandinskaja, la presentatrice, «facevamo la trasmissione in yiddish. Oggi non ci sono più molti che lo capiscono. Ma da quando siamo passati al russo, questa trasmissione è diventata una delle più popolari della nostra rete e viene mandata anche alla radio». Nella macchina coreana che ci porta in giro per la città , cerco di sintonizzarmi sulla sua trasmissione. A Birobidzhan tutti girano a bordo di macchine coreane, con il volante a destra. Qui la Corea è vicinissima e l’Europa, distante diecimila chilometri, è qualcosa di vago e indistinto. Finalmente sento la voce di Tatjana Kandinskaja. Annuncia una puntata sul significato dello shabbat e le tradizioni culinarie che accompagnano questo giorno di riposo. Tra qualche minuto tutti sapranno come si prepara il Gefilte fish, la carpa farcita. Nell’attesa si sente la voce profonda di un uomo che canta: «Ho traversato oceani e continenti e non ho trovato nessun paese bello come il mio Birobidzhan». Arriviamo davanti al Teatro nazionale ebraico, inaugurato nel 1936 dal numero due del regime di Stalin, Lazar Kaganovic in persona. Quando entro nella sala, gli attori stanno provando una commedia musicale, I cercatori di felicità , da un film di propaganda realizzato nel 1936. Rimango turbato a vedere questi giovani che ballano e cantano sul ritmo della musica di Isaac Dunajevskij: «Addio America, addio Europa, buongiorno patria nostra, nostro Birobidzhan». Eppure siamo nel XXI secolo e lo Stato di Israele esiste da quasi sessantacinque anni. Ma qui, contrariamente a Israele, si studia lo yiddish. In una classe che visito, una giovane maestra insegna l’alfabeto ai bambini. Sconvolto dal fatto di ritrovarmi a casa, sì, a casa, a più di undicimila chilometri da Parigi, incrocio uscendo una cinese, madre di uno degli alunni, e le domando: «Perché fa imparare lo yiddish a suo figlio?». Lei mi risponde: «Può servire…». Scoppio a ridere. I cinesi sono un miliardo e duecento milioni e gli ebrei appena quattordici milioni. E tra di loro, solo una manciata ormai parla ancora lo yiddish! Ho sempre pensato che Hitler avesse perso le sue due scommesse: cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra e trasformarli in qualcosa di diverso dagli esseri umani. Credevo però che su un punto avesse avuto successo: distruggere una civiltà  ebraica, la civiltà  dello yiddish. Credevo che il nazismo avesse annientato completamente quel mondo. E ora quaggiù, nel Birobidzhan, quel mondo è ancora vivo e pulsante, come l’eco lontana di una civiltà  ferita. Seppellire la memoria, e in particolare la memoria di una lingua, è più difficile che seppellire i corpi. (Traduzione di Fabio Galimberti)


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