Appuntamento con il record Il prossimo 28 aprile sfonderemo i 2000 miliardi

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Giorno e ora X, dicono i pessimisti, sono già  scritti nei numeri. Ventotto aprile 2012, Santa Valeria martire. Alle 16.03 di quel sabato – se la sua corsa continuerà  al folle ritmo di gennaio, 14mila euro in più al secondo – il debito pubblico dell’Italia polverizzerà  la soglia dei duemila miliardi. La matematica, purtroppo, non è un’opinione: lo scorso 31 dicembre il Belpaese doveva ai suoi creditori 1.897 miliardi, 55 miliardi in più del 2010. A fine gennaio – complici (per ironia della sorte) i 9 miliardi pagati per finanziare il Fondo Salva-Stati – la Banca d’Italia ha aggiornato l’asticella a 1.935 miliardi, nuovo record assoluto. Alle 18.21 di ieri sera il “debitometro” curato dall’Istituto Bruno Leoni e visibile sul sito di Repubblica (www.repubblica.it/economia) aveva già  doppiato in scioltezza la boa dei 1.956 miliardi. Ben 113 milioni in più di San Silvestro e a un soffio, 44 miliardi, dallo storico (si fa per dire) traguardo di quota 2000.
IL D-DAY
«Il problema a questo punto non è il se, ma il quando succederà  – spiega uno dei curatori di questo indice che incrocia i dati di via Nazionale con le serie statistiche degli ultimi quattordici anni – Se si va avanti alla velocità  di inizio anno, 50,4 milioni di nuovi debiti all’ora, il D-Day è fissato per il pomeriggio del 28 aprile». Male che vada l’appuntamento è solo rimandato di poco: «Nella peggiore delle ipotesi a novembre», garantiscono al Bruno Leoni. Più probabilmente – visto l’andamento di spread e pil e in assenza di drastici provvedimenti del governo Monti – molto prima, in un qualsiasi momento tra giugno e settembre.
La colpa, meglio dirlo subito, non è del povero esecutivo tecnico che ieri, tra l’altro, ha ratificato il Protocollo europeo per la riduzione del debito. Le riforme approvate a raffica negli ultimi 4 mesi (dalle pensioni alle liberalizzazioni, dalle semplificazioni fino al lavoro) sono armi efficaci, ma a scoppio ritardato. I cui effetti si vedranno nel tempo. Lo stesso vale per il calo dello spread da 575 a 320. Intanto però il tachimetro dell’esposizione tricolore – sfruttando l’inerzia dell’immobilismo degli ultimi decenni – continua ad aggiornare i suoi non ambitissimi record. 
ANNI DAShOCK
Nel 1968 il debito pubblico italiano viaggiava a quota 10 miliardi di euro – meno di quanto vale oggi la Luxottica a Piazza Affari – mentre il rapporto con il pil era a quota 44%. Roba da far crepare d’invidia la Bundesbank. Nel 1980 eravamo saliti a 114 miliardi e al 55%. Quindici anni dopo, nel ’95 – per colpa delle cicale della Prima Repubblica – eravamo già  scesi nella serie B del Vecchio Continente appuntandoci al petto la medaglia dei primi mille miliardi di esposizione e un rapporto debito/Pil al 121,8%. Le cose sono un po’ migliorate tra il ’95 e il 2007, all’epoca del miracoloso aggancio dell’euro in zona Cesarini. Ma è stato un fuoco di paglia. E da quattro anni è ripartito lo scivolone senza freni verso il baratro di quota 2000 miliardi.
ILPEDAGGIO
Alle 18.50 di ieri sera ogni italiano, neonati e centenari compresi, aveva sul groppone 32.270 euro di debito, 120 in più di fine dicembre. L’assurdo è che il 2011, per il bilancio dell’Italia, non è poi andato così male. Anzi. Il rapporto tra le entrate (in sostanza le tasse) e le uscite (la spesa pubblica) è stato positivo per 15,6 miliardi, l’1% del pil. Non avessimo un centesimo di debito, sarebbero tutti soldi in più da investire in servizi ai cittadini. Peccato che l’esposizione da 1.956 miliardi ci costi (ai tassi attuali) qualcosa come 70-75 miliardi di interessi all’anno, 1.150 euro a testa. Una spesa extra che manda in rosso i conti del Paese e accelera il circolo vizioso della corsa del debito.
Che cosa si può fare per fermare questa spirale? Il rimedio più naturale, con le uscite in salita, sarebbe quello di far crescere più velocemente le entrate. L’aumento del pil e il recupero almeno parziale dei 120 miliardi sottratti ogni anno dall’evasione al fisco sarebbero la strada maestra per attaccare l’Everest del debito. L’alternativa è far cassa vendendo quel po’ d’argenteria che è rimasta in cassa: gli enti pubblici italiani hanno un patrimonio immobiliare stimato di circa 450 miliardi. Lo Stato ha partecipazioni azionarie che valgono una cinquantina di miliardi. Ma tutto, su questo fronte, tace. E il debitometro del Bruno Leoni corre inesorabile, al ritmo di 840mila euro al minuto, verso lo striscione dei duemila miliardi.


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