Aranciata amara a Rosarno

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Probabilmente questo è il posto peggiore di tutta l’Europa occidentale. Un accampamento di fortuna con una strada rumorosa da un lato, la ferrovia dall’altro e un fiume stagnante che scorre non lontano. Il campo è un ammasso di tende tirate su alla bell’e meglio con una serie di teloni, a cui si aggiungono un paio di case abbandonate e qualche baracca. Oltre la recinzione di fil di ferro si vedono fuochi ardere tra i mucchi di immondizia: latte vuote formato famiglia di olio d’oliva, bottiglie di plastica, giornali, avanzi di cibo e altri rifiuti non meglio identificabili. Il fumo brucia gli occhi. Al tramonto decine di immigrati si danno da fare: chi cucina, chi taglia la legna, chi urla, chi cerca di scaldarsi. Figure che si stagliano contro la luce delle fiamme.

In questo squallido accampamento, dove secondo le organizzazioni umanitarie le condizioni sono simili a quelle dei campi profughi delle zone di guerra o perfino peggiori, vivono almeno duecento lavoratori stagionali. Sono arrivati da tutta l’Africa: dal Ghana, dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio. Ogni inverno almeno duemila persone arrivano nella località  agricola di Rosarno, in Calabria, per guadagnarsi da vivere raccogliendo le arance, che finiranno sui banchi dei mercati e dei supermercati o verranno trasformate in succo o in concentrato destinato alla produzione di bevande analcoliche. Prodotti ottenuti dallo sfruttamento di chi si trova alla base della filiera produttiva.

Per questo è nato un movimento che chiede alle multinazionali dell’alimentazione che si riforniscono in questa zona di contribuire a risolvere il problema. Coldiretti, la più importante associazione italiana degli agricoltori, afferma di aver scritto a diverse aziende (tra cui la Coca-Cola, che produce l’aranciata Fanta), denunciando il prezzo iniquo dei concentrati d’arancia, e la situazione di forte disagio che ne deriva.

Molti immigrati africani si trovano illegalmente in Italia. Sono arrivati attraversando il Mediterraneo rischiando di morire per cercare una vita migliore o un lavoro sicuro che gli permetta di mandare soldi a casa. Quasi tutti fanno la spola tra le principali regioni agricole (Puglia, Campania, Sicilia, Calabria e Basilicata) per trovare un lavoro a cottimo da svolgere durante le raccolte stagionali delle arance, dei limoni, dei kiwi, delle olive, dei pomodori e dei meloni. Attualmente in Italia ci sono circa 50mila migranti, soprattutto africani ma anche dell’Europa dell’est, che vivono in questo modo.

Di solito per una giornata di lavoro negli aranceti della Calabria si guadagnano venticinque euro. La tariffa varia a seconda dell’azienda e del prezzo delle arance sul mercato. I braccianti sono spesso reclutati da caporali che lavorano per i proprietari dei campi, che sfruttano la grande disponibilità  di manodopera a basso costo. I caporali, sia italiani sia africani, chiedono ai lavoratori immigrati dei soldi (si fanno pagare dai 2,5 ai cinque euro per trasportare gli immigrati avanti e indietro dal campo) e a volte trattengono una parte dalle paghe versate dai coltivatori.

Squallidi tuguri
A Rosarno e nelle campagne circostanti molti immigrati vivono in tuguri fatiscenti o in accampamenti di fortuna costruiti ai margini della cittadina, senza elettricità  né acqua corrente. In molti casi non hanno neanche un tetto degno di questo nome. Nel campo più grande della zona alcuni braccianti “sono costretti a dormire all’aperto, anche in inverno”, dice Solomon, un ghaneano che vive qui da due mesi. “Le condizioni non sono buone, come può vedere”, dice indicando il caos che ci circonda quando visitiamo l’accampamento. Solomon dice di essere in Italia da tre anni. Prima di trasferirsi a Rosarno “per motivi economici” ha vissuto per un periodo a Napoli. Un altro immigrato che non specifica il suo nome dice di essere arrivato dal Ghana perché qui c’era lavoro, si poteva guadagnare. Non avrebbe “mai immaginato” che sarebbe finito in un posto come questo.

Mentre siamo al campo arrivano le razioni alimentari portate da volontari del luogo: la pasta calda di un ristorante vicino, cibo in scatola e altri generi di prima necessità . Uno dei lavoratori distribuisce le provviste: non basteranno per tutti, ma sono pur sempre qualcosa. Quando torniamo il giorno dopo, alcuni non sono contenti della nostra presenza: dicono che sono stanchi dei giornalisti che li fotografano in queste condizioni. Uno di loro lancia una pietra. Scoppia una discussione animata, la folla si raduna, si sentono urla in italiano, in francese, in inglese. La tensione si allenta solo grazie all’intervento della nostra guida, e noi accettiamo di andarcene.

Alcuni immigrati sono ubriachi. All’uscita dell’accampamento uno di loro solleva il pantalone per mostrarci una ferita. “A casa ho due figli, sono senza documenti e ho questa ferita. Cosa posso fare?”. Molti vorrebbero tornare nel loro paese ma sono in trappola, senza soldi né documenti.

Mambure abita in una casa colonica abbandonata insieme ad altri 19 braccianti. Originario del Burkina Faso, è in Italia da nove anni. “Ogni giorno andiamo a Rosarno e aspettiamo che qualcuno ci chiami per la raccolta delle arance”, dice. “Ma al momento non c’è niente da fare, è difficile guadagnare, qui nessuno trova lavoro”. Mambure spiega che quest’anno ha svolto solo un mese di lavoro retribuito. “Ho solo una cosa da dire: voglio tornare a casa”.

Qualche chilometro più in là  c’è un altro edificio fatiscente dove fino a poco tempo fa viveva un gruppo di migranti: il pavimento in pietra è cosparso di pentole e padelle, pacchi di cereali vuoti e incarti di cibo. In una cucina di fortuna c’è un caminetto lurido. Al piano superiore vestiti, coperte e immondizia sono sparsi in tutta la stanza, che chiaramente veniva usata per dormire.

Circa la metà  dei lavoratori stagionali di Rosarno (tra cui quasi tutti i migranti dell’Europa dell’est che vengono in cerca di lavoro) abita in alloggi a pagamento, offerti dai caporali o dai proprietari delle case. Anche nel loro caso le condizioni di vita non sono migliori, secondo le organizzazioni di volontariato, e molti immigrati vivono in appartamenti sovraffollati.

Un duro lavoro
Visitiamo un’azienda dove ci sono cinque o sei immigrati che raccolgono la frutta negli aranceti (alcuni a terra, altri arrampicati sugli alberi), poi riempiono le casse e le impilano per chi verrà  a recuperarle. Sogo parla senza smettere di lavorare. Ha 28 anni, viene dal Mali e spiega di essere riuscito a mettere da parte un po’ di soldi per costruire una casa nel suo paese. “Sono arrivato in Italia dieci anni fa. Se il raccolto è buono riusciamo a farci pagare”, spiega. Il bracciante ha trascorso il suo primo anno in Italia nel “ghetto” (gli accampamenti dei migranti a Rosarno), ma ora abita in un appartamento in città . Sogo non voleva restare in Italia per tanto tempo: “In famiglia siamo trenta e all’inizio progettavo di tornare. Ora è difficile guadagnare abbastanza per mandare soldi a casa”.

I braccianti rifiutano di dirci quant’è la loro paga. Alberto Callello, il datore di lavoro, produce soprattutto arance a uso alimentare e solo una parte è destinata alla lavorazione industriale. L’agricoltore sostiene che lo stipendio dei braccianti è ragionevole. “Venticinque euro è il minimo salariale: è una paga misera, ma questa è un’economia misera. C’è miseria, non sfruttamento”. Callello, che appartiene a una cooperativa di otto o nove agricoltori e sta cercando di convertire i suoi campi all’agricoltura biologica, dà  la colpa all’economia della coltivazione delle arance e al funzionamento della filiera produttiva.

Dice che il prezzo di mercato è sceso al di sotto del costo di produzione: “Per le arance industriali (usate per i concentrati) mi danno sette centesimi al chilo, mentre pago gli operai otto centesimi al chilo: è paradossale. In fondo alla catena di distribuzione c’è una guerra tra poveri”. Callello vende le sue arance a uno stabilimento del posto, che a sua volta rivende la merce a fabbriche più grandi dove la frutta viene lavorata per importanti aziende alimentari e produttori di bevande.

A Rosarno l’organizzazione non governativa Emergency mette a disposizione due volte alla settimana un ambulatorio mobile: un pulmino con un ambiente per le visite e le strumentazioni per effettuare piccoli interventi di base. I volontari dicono che nel corso della giornata di oggi visiteranno almeno quaranta pazienti: “Arrivano con dolori muscolari e articolari, con problemi respiratori e a volte hanno bisogno di specialisti”, dice il dottor Luca Corso. “Abbiamo cominciato a riscontrare disturbi collegabili alle loro attività  lavorative, soprattutto all’uso improprio di pesticidi e fungicidi impiegati in questa stagione”, spiega Corso. “Si tratta soprattutto di dermatiti da contatto nelle zone esposte come le mani e il viso, o anche congiuntivite, perché gli occhi non sono protetti”. Angelo Moccia, direttore dell’ambulatorio, sostiene che qui le condizioni sono peggiori di quelle che ha osservato in Congo. Andrea Freda, l’infermiere del progetto, aggiunge: “La situazione non è molto diversa da quella dell’Afghanistan”.

Anche se ufficialmente gli ospedali italiani dovrebbero fornire cure agli immigrati, anche a quelli senza documenti, i medici sostengono che in alcuni casi i braccianti si sono visti rifiutare le terapie, mentre altri hanno paura di chiedere aiuto perché temono di essere spediti in un centro di identificazione ed espulsione.

Prigioniero in Libia
In passato Medici senza frontiere ha affrontato la crisi distribuendo kit d’emergenza composti da un sacco a pelo, una saponetta, uno spazzolino e un tubetto di dentifricio. In un rapporto, l’organizzazione aveva definito “infernali” le condizioni in queste zone. La situazione è migliorata per un breve periodo all’inizio del 2010, quando le autorità  sono intervenute per placare una rivolta scoppiata dopo che due lavoratori immigrati erano rimasti feriti in una sparatoria. Mentre le immagini degli scontri venivano trasmesse in tutto il mondo, il governo decise di trasferire molti immigrati. Alcuni accampamenti di grosse dimensioni furono demoliti. Ma ben presto i braccianti sono tornati e la situazione è peggiorata. Ultimamente le autorità  hanno deciso di alloggiare gli immigrati in campi profughi temporanei.

Siamo riusciti a entrare in una di queste nuove “tendopoli”, costruita vicino a uno stabilimento industriale alle porte della città . Il campo è spartano, ma ogni tenda ospita sei migranti ed è dotata di letti veri, di luce e di riscaldamento. All’esterno ci sono diversi gabinetti chimici. Un accampamento simile si potrebbe trovare ai margini di una zona di guerra, o dopo una catastrofe naturale.

In un complesso vicino alcuni funzionari dell’amministrazione locale ci mostrano un campo costruito di recente. Ci sono diciotto container che possono ospitare fino a 108 persone. C’è un’infermeria dove un medico effettua visite una volta alla settimana, una lavanderia e ogni alloggio è dotato di due stanze, un bagno e una cucina. I migranti dicono che nel campo si vive meglio che nel “ghetto”, ma comunque continuano a sentirsi senza via di uscita. “È un grosso problema”, dice Daniel, 28 anni: “Come si fa a tornare a casa?”. Partito dal Ghana, il giovane è stato prigioniero in un campo di detenzione in Libia e quando è stato rilasciato è salito subito a bordo di un gommone diretto in Europa. Ma l’imbarcazione si è incagliata contro uno scoglio al largo della Sicilia. “Tre di noi sono annegati, quando abbiamo toccato terra la polizia ci ha soccorso”.

Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, vive sotto scorta: questa è terra di mafia. La donna ci racconta del progetto di ampliamento dei campi, per aumentare il numero dei posti letto fino a centocinquanta, e ammette che la condizione dei migranti è scandalosa. “Il problema principale riguarda l’inclusione: gli immigrati si fermano solo per qualche mese, arrivano e se ne vanno”.

La multinazionale si difende
L’Italia è un importante produttore di agrumi: vengono raccolte circa 3,6 milioni di tonnellate di agrumi su un’area di circa 170mila ettari. La Calabria è la seconda zona di coltivazione delle arance, e nel 2009 la sua produzione ha superato le 870mila tonnellate. Sono frutti destinati in gran parte alla trasformazione industriale, ideale per succhi e concentrati.

I produttori di arance italiani si trovano ad affrontare la concorrenza crescente di Brasile, Cina, Stati Uniti, Messico e Spagna. Secondo Pietro Molinaro, della Coldiretti Calabria, la concorrenza estera e i prezzi bassi imposti dalle grandi aziende hanno reso la coltivazione di arance sempre meno conveniente per molti agricoltori. Vengono letteralmente “spremuti”, dice.

“Questa zona si trova di fronte a un grave problema: le tariffe pagate dalle grandi ditte per il succo non sono eque”, spiega Molinaro. “E questo costringe i piccoli stabilimenti alimentari della zona, quelli che producono il concentrato, a chiedere prezzi bassissimi per le materie prime”. Gli agricoltori ammettono che ricorrono alla manodopera a buon mercato degli immigrati proprio per questo: “I giovani italiani non vogliono lavorare nei campi. L’unica soluzione è usare i braccianti immigrati”, dice Callello.

Molinaro è convinto che sia stata questa situazione a scatenare le violenze del 2010. “Questo meccanismo contorto è la causa degli scontri di due anni fa. I mezzi d’informazione stranieri hanno parlato di razzismo, di tensioni sociali, ma non dei motivi reali”. Alcune organizzazioni sostengono che la frammentazione della filiera produttiva delle arance, in cui le industrie si riforniscono da molte cooperative e aziende diverse, e l’impiego diffuso di lavoratori immigrati impediscono quasi del tutto alle aziende che si riforniscono nella regione di evitare le “arance sporche”.

La Coldiretti Calabria dice di non aver ricevuto nessuna risposta alle sue lettere indirizzate alle multinazionali del settore, chiedendo di rivedere i prezzi e le condizioni di lavoro. La Coca-Cola dice di non aver mai ricevuto la lettera. Quando gliel’abbiamo mostrata, l’azienda ha detto che l’indirizzo era sbagliato e che il testo si riferiva al prodotto di un’altra azienda.

In Italia la Coca-Cola promuove la sua Fanta come una bevanda prodotta “al cento per cento” con arance italiane. L’azienda ha confermato che la materia prima proviene dalla Calabria, ma respinge le accuse di comportamenti scorretti e ha dichiarato che il suo fornitore calabrese ha ricevuto nel maggio del 2011 una regolare certificazione sanitaria da un ente indipendente. Ha ammesso, comunque, che la struttura della filiera produttiva e della catena di distribuzione le impedisce di effettuare dei controlli in tutte le aziende agricole e in tutti i consorzi da cui il suo fornitore potrebbe avere comprato il succo. Non esistono quindi elementi per dimostrare che la Coca-Cola o i suoi fornitori siano responsabili di pratiche illecite o di violazioni.

In una dichiarazione dettagliata dell’azienda si legge: “Gran parte del succo che acquistiamo in quella zona viene usato per i prodotti destinati al mercato italiano. Il nostro fornitore è un impianto di produzione di succo che si procura quasi tutta la materia prima da consorzi o cooperative che si riforniscono da coltivatori diversi. Anche se è impossibile per noi controllare tutti i consorzi e tutte le aziende agricole, il nostro fornitore dispone delle dichiarazioni di un gran numero di consorzi che attestano la sua conformità  alle leggi italiane sul lavoro. Pur incoraggiando senz’altro il rispetto dei diritti umani e pratiche lavorative corrette in tutta la catena di distribuzione, non possiamo che limitarci a controllare solo i nostri fornitori diretti”. L’azienda ha sottolineato di essere impegnata nella difesa dei diritti umani e dei lavoratori, citando vari esempi, come l’organizzazione di seminari sul lavoro minorile e sul traffico di esseri umani.

A Rosarno, mentre si diffonde la voce della costruzione delle tendopoli, molti immigrati cercano di scoprire come trasferircisi, e quando. Ma resta un senso di rabbia e di risentimento per il trattamento che ricevono e per le condizioni intollerabili che sono costretti a sopportare.

Diallo, un guineano che si è dato da fare per denunciare le condizioni dei braccianti degli aranceti ai politici e ai mezzi d’informazione, è schietto: “Io gli dico che non siamo criminali, io lavoro e loro ci sfruttano. Non abbiamo nessuno a cui chiedere aiuto. Questo è apartheid, colonizzazione, schiavitù silenziosa. Per noi non c’è futuro”.

Traduzione di Floriana Pagano.

Internazionale, numero 938, 2 marzo 2012


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