Asia, giochi di guerra

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HONG KONG È corsa agli armamenti in Asia: l’ultima relazione SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) non lascia dubbi, e riporta dati molto significativi. I due giganti asiatici, Cina e India, mostrano un’impennata nei budget militari (più 11 per cento per la Cina, più 13 per cento per l’India), ma non solo: secondo l’Istituto svedese, «il volume dei trasferimenti di armi mondiale nel periodo 2007-2011 è aumentato del 24 per cento» rispetto ai cinque anni precedenti, «e i cinque maggiori importatori di armi sono tutti Paesi asiatici».
Il primo importatore è l’India, che da sola si aggiudica il 10 per cento delle importazioni di armamenti globali. Seguono la Corea del Sud, con il 6 per cento, il Pakistan e la Cina, entrambi con il 5 per cento, e Singapore, la piccola città -Stato del Sud-Est Asiatico che da sola importa il 4 per cento degli armamenti. La posizione relativamente modesta della Cina non deve però trarre in inganno: è vero che stia acquistando molte meno armi dall’estero, ma non per un diminuire della sua spesa bellica, anzi. La Cina infatti è divenuta uno dei primi Paesi produttori, ed importa meno solo perché produce di più. Negli ultimi cinque anni, la Cina ha raddoppiato la quantità  di armi che esporta, assestandosi al sesto posto mondiale come Paese esportatore, subito dopo il Regno Unito.
Tutta quest’attività  del resto aiuta a mettere in prospettiva il lungo contenzioso fra la Cina e l’Unione Europea, che impose un embargo sulla vendita di armi a Pechino dopo la sanguinosa repressione delle manifestazioni studentesche in piazza Tiananmen nel 1989. In un comunicato stampa, Pieter Wezeman, ricercatore al Programma Sipri sui trasferimenti d’armi, ha detto che «i principali Stati asiatici importatori (di armi) stanno cercando di sviluppare le loro industrie degli armamenti, e di diminuire la loro dipendenza da rifornimenti d’armamenti esterni».
I trasferimenti d’armi, del resto, avvengono in misura significativa fra partner asiatici: così, il quasi raddoppiare delle esportazioni cinesi d’armi è conseguenza diretta del fatto che il Pakistan acquista in modo massiccio dalla Cina, e costituisce il principale mercato del gigante asiatico che, secondo Sipri, non ha per ora conquistato in modo significativo altri mercati importanti. I Paesi asiatici si aggiudicano dunque circa il 73 per cento della produzione cinese dedicata all’export, mentre il resto delle armi cinesi va in particolare in Medio Oriente e in Africa (rispettivamente il 12 e il 9 per cento), con un 6 per cento diretto invece in America del Sud.
Molte delle armi prodotte localmente, però, lo sono dietro licenza: l’India, per esempio, produce carri armati T-90S e aerei da combattimento Su-30 Mk dietro licenza russa, e sottomarini Scorpene dietro licenza francese, aerei da combattimento Jaguar e Hawk dietro licenza britannica, e radar navali dietro licenza olandese. Inoltre New Delhi ha importato fra il 2007-2011 120 caccia Su-30 e 16 MiG russi.
E la Cina ormai esporta armi sempre più raffinate: aerei da combattimento, carri armati, fregate, mentre appronta da vecchie portaerei ucraine la sua prima portaerei quasi-indigena. In alcune cose, però, continua a dipendere dall’estero: i motori per i suoi jet vengono per lo più importati dalla Russia, e altri componenti dalla Francia, dalla Svizzera, dal Regno Unito e dalla Germania (che, grazie alla vendita di componenti non esclusivamente militari possono aggirare l’embargo imposto dall’Ue).
Nella regione, malgrado la crescita degli armamenti indiani, la Cina resta quella a budget militare più elevato, consacrando 110 miliardi di dollari Usa all’esercito. L’India, invece, spende 38.8 miliardi di dollari Usa per le sue forze armate. In secondo luogo, se la corsa agli armamenti cinesi è spesso criticata, in particolare da Washington, per la scarsa trasparenza che la caratterizza, per quanto riguarda l’India le minacce dalle quali vuole essere in grado di difendersi provengono dallo stesso Pakistan armato dalla Cina, e da quella «minaccia interna» costituita dai gruppi di «guerriglieri rivoluzionari», in particolar modo i Naxaliti (anche detti «maoisti», balzati alle cronache negli ultimi giorni per il rapimento di due turisti italiani).
Nelle aspirazioni di Pechino c’è in particolar modo la «riunificazione» con Taiwan, definita dalla Cina come una «provincia ribelle», per quanto la separazione sia avvenuta nel 1949 quando le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek, sconfitte da quelle comuniste di Mao Zedong, ripararono sull’isola, governata da allora in modo autonomo. Taiwan è protetta da una possibile invasione esterna dal Taiwan Relations Act, che gli Usa firmarono con Taipei nel 1979 quando riconobbero la Cina, interrompendo le relazioni diplomatiche con l’isola. E del resto, Pechino punta sempre il dito verso gli Usa e la loro massiccia presenza nel Pacifico quando le viene chiesto a cosa possa servire un giorno avere un armamentario bellico così imponente.


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