Bersani ricompatta i suoi Ma il Pdl: no a passi indietro

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ROMA — Ad usare toni durissimi restano i big dell’opposizione, parlamentare e no. Come Antonio Di Pietro, che definisce Mario Monti «padrone arrogante» che merita di «andarsene a casa» se non fa marcia indietro. O Umberto Bossi, che è tranchant: «L’articolo 18 non si tocca. Non è una riforma, è una controriforma». O Nichi Vendola: Il Pd dovrebbe togliere la fiducia a Monti».
Nella maggioranza invece i toni si fanno meno guerreschi. Però, a parte un ecumenico Casini secondo il quale «con i veti reciproci non si va avanti, si rispetti Bersani ma non si subiscano i diktat della Cgil», il Pd e il Pdl restano su opposte barricate: critici i primi sulla formulazione uscita dal confronto con le parti sociali dell’articolo 18, durissimi i secondi su ogni ipotesi di «passo indietro» che, avverte Fabrizio Cicchitto, «per noi sarebbe inaccettabile» perché «sia chiaro — dice Maurizio Lupi — se il Pd gioca al ribasso, noi giocheremo al rialzo. E si vedrà  che succede…».
Lo scontro insomma resta, anche se l’ipotesi che nelle ultime ore si è rafforzata di una riforma presentata non con decreto, come pretendeva il Pdl, ma con legge delega che permette un lavoro in tempi piuttosto lunghi del Parlamento ha indorato la pillola al Pd. Che ieri ha ritrovato almeno pubblicamente l’unità  interna: dietro Bersani, che in serata assicurava che «non staccheremo la spina a Monti, troveremo soluzioni in Parlamento», si sono schierati tutti i big del partito. A partire da quello che più si era spinto avanti sull’articolo 18, Walter Veltroni, secco nel far sapere a Monti che «il governo non può dire “prendere o lasciare” nè al Pd né al Parlamento”».
Un’unità  che non è piaciuta al Pdl, preoccupato a questo punto che — complice la moral suasion del Quirinale e la pressione fortissima del Pd — Monti «si pieghi alle pretese di Bersani», mettendo «noi in difficoltà ». Non a caso fin da ieri mattina Angelino Alfano ha dettato la linea sulla quale tutto il partito deve volente o nolente convergere, compresi i falchi che sarebbero disposti a portare la rissa su un piano sempre più alto per costringere il Pd a rompere e magari andare finalmente al voto: «Anche per noi questa riforma è un compromesso, ma per fare esattamente le cose che si desiderano bisogna vincere le elezioni: se Bersani vuole la riforma della Camusso e della Fiom deve vincere le elezioni, farla e poi andare in giro a spiegarla».
Sarà  questo il mantra del segretario del Pdl fino a quando non si entrerà  nel vivo della riforma, per avvertire il governo che a pagare il conto di una eventuale retromarcia sull’articolo 18 per impedire che «il Pd si spacchi» non potrà  essere un partito che sul mercato del lavoro ha già  fatto «passi indietro». E dunque, se anche lo strumento che verrà  alla fine scelto non sarà  il decreto ma la legge delega, non si faranno le barricate, ma sul merito del provvedimento «noi non cediamo» dice Lupi. Pur sapendo che il tema provoca mal di pancia anche nel proprio elettorato, esposto peraltro ai messaggi di rivolta della Lega: «E certo che è un tema difficile. Per tutti», ammette Cicchitto.


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