Borsellino, l’ultima verità : lo tradì un uomo dello Stato

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Fu Palermo a tradire Paolo Borsellino, non è stato solo un ufficiale infedele dell’Arma o un ministro della Repubblica colluso, un poliziotto corrotto, un «giuda» nel Palazzo. A tradire Paolo Borsellino è stato un patto che hanno voluto tanti, troppi in Italia. Un patto che lo Stato ha fatto con la mafia. Se non si parte da qui, da questa evidente verità  che si è cercata di nascondere per molto tempo, non scopriremo mai nulla di quelle bombe di vent’anni fa. A nemmeno due mesi dalla strage di Capaci, Paolo Borsellino è stato sacrificato per salvare qualcun altro e per far proseguire, «spingere», una negoziazione fra pezzi delle Istituzioni e pezzi di una Cosa Nostra siciliana che non poteva all’improvviso sparire dalla scena. L’inchiesta di Caltanissetta sul massacro di via Mariano D’Amelio è un primo passo – ma solo il primo – che ci può avvicinare alla realtà  di quell’estate del 1992, agli intrighi e alle congiure che si sono consumate alle spalle di Paolo Borsellino, solo e disperato in mezzo a potenti d’Italia che stavano trattando con il nemico.

Il procuratore Sergio Lari e i suoi magistrati hanno avuto il merito di ribaltare un’indagine avvelenata dagli apparati e il coraggio di chiedere qualche mese fa la revisione del processo per sei ergastolani – tutti condannati per l’assassinio di Borsellino e dei cinque poliziotti della sua scorta – ma la «storia» dell’autobomba di via Mariano D’Amelio è ancora da riscrivere nella sua interezza.

Non basta il sicario Gaspare Spatuzza per capire chi ha ordinato davvero la morte di Borsellino e perché doveva morire proprio quell’estate. Spatuzza è servito per scardinare un’inchiesta costruita in laboratorio per depistare, Spatuzza ha consentito ai pubblici ministeri di Caltanissetta di ricominciare daccapo. È solo l’inizio, è stata l’inchiesta sull’inchiesta: adesso deve cominciare quella vera.

Ci sono altri personaggi – ex ministri dell’Interno come Nicola Mancino, ex ministri della Giustizia come Giovanni Conso, ex alti funzionari del dipartimento penitenziario, generali, ex capi della polizia – che sanno probabilmente cosa è accaduto e però restano muti. Ci sono altri personaggi che hanno ricordato dopo quasi due decenni – ma tutto, proprio tutto? -, i famosi «smemorati» come l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, l’ex direttore degli Affari Penali Liliana Ferraro, che sono stati costretti ad ammettere che «sapevano» anche loro qualcosa solo quando un personaggio scaltro e calcolatore come Massimo Ciancimino li ha trascinati nella vicenda. Quel Ciancimino al quale i magistrati di Caltanissetta non hanno mai creduto e che, nei loro atti, viene descritto come uno «che sembra essere più favorevole agli interessi di Cosa Nostra che a quelli dello Stato». Ci sono stati e ci sono ancora troppi silenzi istituzionali intorno agli ultimi due mesi di vita del procuratore Paolo Borsellino. Cosa nascondono quei silenzi? È questo il passo successivo che dovranno fare i procuratori di Caltanissetta se vogliono davvero capire il perché di via D’Amelio soltanto cinquantasette giorni dopo la bomba che ha ucciso Giovanni Falcone.

In quei due mesi le «trattative» fra Stato e mafia si sono intrecciate, sovrapposte. Non ce n’è stata solo una di trattativa.

Una è quella che è stata già  individuata con robusti riscontri.

Gli ufficiali del Ros dei carabinieri in contatto con l’ex sindaco Vito Ciancimino, il «papello» presentato da Totò Riina per fermare le stragi, le paure di alcuni uomini politici che avrebbero contattato gli apparati per «sondare» la mafia e convincerla a non mettere più bombe.

Fra le migliaia di carte dell’indagine affiora il nome del generale Antonino Subranni, al tempo il capo dei reparti speciali dell’Arma. La moglie di Paolo Borsellino, Agnese, ha raccontato ai pubblici ministeri che suo marito le aveva confidato poco prima di morire che il generale era «punciutu», che era mafioso. Due colleghi e amici, Alessandra Camassa e Massimo Russo, hanno ricordato invece che – durante il loro ultimo incontro a Palermo – Borsellino ha parlato loro di «un amico che l’aveva tradito».

Sono tutti pezzi importanti di un quadro che i magistrati di Caltanissetta hanno messo insieme per ricostruire chi considerava Paolo Borsellino un «ostacolo» a ciò che stava avvenendo, ai patti che si stavano stipulando fra il giugno e il luglio del 1992.

Ora l’inchiesta è veramente a un bivio. Se i magistrati di Caltanissetta in futuro saranno abili come lo sono stati fino a oggi, forse riusciranno a decifrare tutti i passaggi ed entrare nell’intrigo. Ma se si fermeranno solo nei dintorni di Cosa Nostra sarà  molto difficile saperne di più. La strage di via D’Amelio – questa è almeno la nostra sensazione – la mafia siciliana l’ha più subita che cercata.

Ci vorrebbe un pentito. Ma non di Cosa Nostra. Ci vorrebbe un pentito di Roma. Uno che, quell’estate, faceva il ministro o stava in qualche alto comando.


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