Chi ha paura della concorrenza

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In questo particolare caso, la norma che ha scatenato la reazione dell’Abi è quella che cancella le commissioni sugli affidamenti. Come la norma che impone conti correnti gratuiti e senza spese per alcune categorie di pensionati, questa norma agisce direttamente sul sistema dei prezzi dell’industria bancaria. Non vi è alcun dubbio che interventi diretti sui prezzi non siano lo strumento di politica industriale più efficiente. Questa è certamente una norma migliorabile, probabilmente dettata dalla fretta. 
Reagire come ha fatto l’Abi, però, suggerendo con velata minaccia, che la norma “costringerà  a rivedere il sistema del credito a imprese e famiglie” e che essa mette in discussione “la salvaguardia dell’occupazione” di 300 mila bancari, a me pare francamente inaccettabile. È ben vero che taxisti e farmacisti, per non parlare di professionisti e altre lobby, hanno ottenuto vari gradi di ripensamento delle norme di liberalizzazione che li riguardano alzando la voce. L’associazione delle banche deve aver pensato che giovasse alla tutela delle rendite del sistema bancario accodarsi all’alzata di toni generale nel caravanserraglio. 
Ma la reazione dell’associazione delle banche è, se possibile ancora più inaccettabile di quella delle altre categorie. Prima di tutto, infatti, il buon funzionamento del sistema bancario è assolutamente fondamentale nel processo di risanamento dell’economia del Paese che il governo Monti ha intrapreso. E, soprattutto, il settore bancario italiano è molto lontano dalla competitività  necessaria perché possa contribuire al risanamento e alla crescita del Paese. 
È bene essere chiari e diretti su questo punto: le banche italiane sono protette da vari meccanismi formali e sostanziali di controllo che garantiscono gli azionisti di maggioranza e gli amministratori, indipendentemente dai risultati di gestione, in cambio di una commistione incestuosa con la politica. La situazione del sistema bancario non è poi così cambiata dai tempi del Governatore Fazio, della scalata Unipol, e del «Abbiamo una nostra banca». Le Fondazioni bancarie, con vari accordi di sindacato e partecipazioni incrociate, continuano a controllare la maggior parte degli istituti di credito, sostanzialmente senza che il proprio operato sia sindacabile dagli (altri) azionisti. La storia recente di Unicredit, dalla cacciata di Alessandro Profumo alle notizie di questi giorni sull’avvicendamento al vertice dell’istituto, non può essere letta che come una serie di colpi di mano delle Fondazioni per garantire a sé il controllo della banca a qualunque costo. Un costo enorme, infatti, sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro. 
Non per nulla il sistema bancario italiano, nel corso della crisi, è andato in fibrillazione nel tentativo di ricapitalizzarsi sul mercato senza diluire la posizione dell’azionariato di controllo. Un buon esempio, a questo proposito, sono le manovre del Monte dei Paschi e della politica clientelare che intorno ad esso gira da tempo immemorabile, dopo che la banca ha perso 4 miliardi di euro ed accumulato più di un miliardo di debiti dal 2010; sempre sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro. 
La gestione ed il controllo del sistema bancario, al riparo dalla concorrenza sui mercati dei capitali, ha effetti negativi importanti sul sistema economico del Paese. Non bisogna immaginare solo una questione di potere, di poltrone, e di cattiva politica. Tutt’altro. Un sistema bancario come il nostro non fa bene il proprio lavoro: invece di distribuire il credito alle imprese sulla base del loro rendimento atteso, tenderà  a farlo con un occhio a vari meccanismi clientelari; invece di investire nelle imprese private, tenderà  a favorire investimenti nel pubblico (oggi, ad esempio, nel debito pubblico del Paese), per ingraziarsi la politica. Ma soprattutto, la mancanza di concorrenza del sistema bancario permette che operazioni poco trasparenti e poco corrette, contro gli interessi dei clienti, siano pratica comune nell’industria. Senza bisogno di tornare ai casi Cirio e Parmalat, o ai bond Argentini, casi in cui le banche rifilano ai propri clienti titoli di cui esse desiderano liberarsi o derivati e cartolarizzazioni a rendimenti inferiori a quelli di mercato, sono all’ordine del giorno. Alessandro Penati ne ha recentemente documentati vari e con dovizia di particolari, su queste colonne. Uno degli ultimi esempi è il caso di Unicredit che ha «caricato una commissione dell’1% all’anno per una semplice obbligazione, quando si paga solo lo 0,2% di commissioni annue per investire nell’indice dei bond europei con un Etf». In effetti i conti tornano: proteggere rendite di questo tipo val bene le dimissioni del comitato di presidenza dell’associazione di categoria.


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