Giovanni Testori Passioni, scandali e trionfi del maestro che voleva fuggire dal suo tempo

by Editore | 19 Marzo 2012 6:33

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«Un latrato oscuro di pigmenti feroci»… «Sulle vene orride d’acciaio»… «Lagrime, disperati gangli»… «Nell’orrenda catastrofe d’abissi»… «Lampi di lividi rasoi»… «In sangue, a morsi lucidi ed orrendi»… «In cloache»… Basta riaprire le 350 pagine de I trionfi, poema di Giovanni Testori; e intendere la sua sincerità  nel dichiarare «Tento di salvarmi scappando nel Seicento». Già , precisava oltre mezzo secolo fa: «Poco prima della grande peste del 1630, nell’alta Valsesia, nel mondo di Tanzio da Varallo, con quel senso di cupa passione, d’inferno e di morte. Per me, il più gran pittore del Seicento italiano, dopo Caravaggio; ma adesso lo sanno già  in tanti. Preannuncia in maniera impressionante Géricault».
Le passioni di Gianni sono ora in mostra alla Loggetta Lombardesca di Ravenna, fino alla metà  di giugno. Abbondanti e precise: vergogna, carogne, scandalo, tensioni materiche fra grumi e gangli putrescenti. Pestilenze e pestiferati, appunto: bave, pus, coaguli, vermi, visceri, teschi lividissimi, feci di cadaveri. Altro che semplici fibrillazioni, come sarebbe d’uso. Flagellazioni e crocifissioni trionfali nell’arte barocca, piuttosto, giacché contrariamente al Gotico ivi si sostiene che cilici e frustate e graticole e vari tormenti e dolori assortiti diano soddisfazioni al Signore e alla Madonna. Come spiegano i Santi e i Martiri. E benché le punizioni siano le medesime che Dante colloca nel suo Inferno: «A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori». Una pala d’altare? «Di qua, di là , su per lo sasso tetro, vidi demon cornuti con gran forza, che li battien crudelmente di retro». (Solo i “cornuti”, qui, paiono divenuti oggetto di battute da bar).
Negli anni Cinquanta, collaboravamo a Paragone, e ci si vedeva spesso in villa da Longhi e dalla Banti. «Occhi di ghiaccio», esclamava Giorgio Bassani guardando Testori in faccia, sotto il «Ragazzo morso da un ramarro» del Caravaggio, lì di casa. Ma in quegli anni andavamo pubblicando i nostri primi lavori narrativi nella «Biblioteca di letteratura» diretta appunto da Bassani, per Feltrinelli. Quante reciproche dediche e letture, a quei tempi. Non solo fughe per scappar via dal Seicento, dal pregiudizio barocco. Ci si poteva salvare nell’Impressionismo delle ninfee, nel Neoclassicismo canoviano, magari fra i manichini della Metafisica… o del Quattrocento ferrarese…
A Ravenna, dominano o impazzano i Realisti in Germania presentati nell’inverno ‘71-’72 alla Rotonda della Besana in una esclusiva “prima” milanese da Testori, forse in collaborazione con la Galleria del Levante (di Emilio Bertonati, in via Spiga, con altra sede appunto a Monaco di Baviera). Con una sensazionale «Macelleria» di Otto Dix, in copertina, opere «indignate e fiammanti» di Grosz, Schad, Radziwill, Schlichter, Hubbuch, accomunati da «brivido, ludibrio, orgasmo attimale e repellente», nonché «sangue, macchie, macule, bave, psoriasi, piscie e muschiature». Altro che i gangli e globuli e glomeruli e gliommeri dove si poteva riscontrare ancora un’influenza del sommo Gadda. Ma poi anche i tedeschi ulteriori, non meno catastrofici ma nati nel secondo dopoguerra: Berndt Zimmer, Rainer Fetting, Salomé, “Nuovi Selvaggi” come accomunati dagli orgasmi repellenti…
Un Settentrione appena oltreconfine associava Testori ad alcuni ticinesi e grigionesi illustri: i Giacometti a Stampa, Varlin a Bondo. Con trame che si intrecciano: il poeta Rilke, amante di Baladine madre di Pierre Klossowski e Balthus, nel povero dopoguerra dell’estate 1919 fu ospitato coi due ragazzi da un conte Salis a Soglio, tra Chiavenna e il Maloja, dove l’importante famiglia ha un palazzo, in parte albergo. E un altro palazzo a Bondo, luogo del pittore Varlin. Mentre i Giacometti erano lì accanto, a Stampa; e venendo dall’Engadina si passava dai luoghi di Segantini e di Nietzsche, a Sils-Maria. Ecco dunque Giacometti e Varlin e Bondo, alla mostra di Testori, con un suo ritratto sconvolto «dalla caverna di mostri del Goya nero», e qualche veduta su e giù per la Val Bregliasca (benché il capolavoro di Varlin sia il ritratto dominante della padrona di una celebre brasserie a Zurigo).
Ecco infine Ennio Morlotti, amico lecchese di una vita e sodale di tutta la carriera, con fiori secchi e teschi e figure processionali in paesaggi sull’Adda. Alle spalle, ritratti molto lombardi del Pitocchetto e di Fra’ Galgario: nobili e popolani, dame e giovinetti. E le varie ma analoghe estasi di Francesco Cairo, dipendenti da quella celeberrima della Santa Teresa del Bernini. L’espressione è sempre la medesima: orgasmo, o “pà¢moison”, di cui dicevano i beneducati: «c’est pas bien, à§a». Infatti, del medesimo Cairo, ecco un San Francesco in estasi per motivazioni che si immaginano lodevoli, come anche per l’attigua Maddalena pentita (?). Riprovevoli, invece, per Erodiade con la testa del Battista. Peccato che manchi qualche Giuditta?
«Frescanti, pestanti… Un volo di corvi sulla sterminata carogna della storia; e nel silenzio cemeteriale i gemiti dello sfacimento…». Géricault e Courbet, naturalmente. E una travagliata galleria di dolenti: Francis Bacon, Graham Sutherland, Chaà¯m Soutine, anche talvolta Mario Sironi…
Tra flagellazioni, crocifissioni, deposizioni, forse meglio ricordare certe colazioni con Luchino Visconti, in una casa piena di federe estive su sedie e poltrone, discorrendo della preparazione dialettale dell’Arialda, con la Morelli e Stoppa non milanesi. E intanto, venature di Roserio e della Ghisolfa nel parlato di Rocco e i suoi fratelli, «molto poveri, ma belli!». E quando poi la commedia venne vietata dai magistrati, presidio di regista e attori su panchine davanti al Quirinale, con visitatori in motorino, mentre anziane dame lombarde gracchiando «eggre» fgragogrose, rammentavano le «sciagrade quigrinalizie» quando il Re andava a dormire, mentre Luchino, «un Visconti, sia pure di Modrone, indossava le armi Farnese».
A Ravenna, Gianni si sarebbe forse nuovamente risentito nel sentir definire «facoltosi» i suoi acquisti, spesso anticipatori nei gusti e recuperi correnti, però sostenuti dalla ricchezza familiare, nei saloni chiari presso Viale Romagna. E poi nel pianterreno di Via Brera dove amava ritrarre Birgit Nilsson.
Si faceva sempre più grave. «I più vivi hanno incominciato a rimettere tutto in discussione. Ma rimane una questione gravissima. Si tratta di una diversione dallo scontro definitivo che attende tutti al di là  di un certo anno di vita? O si tratta invece di un modo d’armarsi meglio per questo scontro, e dare così, se si riuscirà , la risposta o quanto meno un’immagine a tutte le ombre che ci sovrastano?».
Pessimi giudizi, sulla cultura contemporanea. «Mi pare fatta di piccoli particolari. Non fa che seguire viottoli di piccole esperienze e piccole emozioni. Un fatto privato, insomma. Anche se sembra e afferma d’essere molto pubblica. Si vende alle occasioni, continuamente, non ha tenuta. Nessuno di noi è più in grado d’affrontare un argomento totale, pur partendo, come si deve, da un fatto particolare. A questo modo mi pare che si voglia riscrivere il mondo, invece di interpretarlo, dandone tutte le lacerazioni e i nonsensi…».
E da noi? «In Italia, la letteratura m’interessa quando testimonia la sua insoddisfazione, e non se suppone di distribuire talismani. Mi pare che si tenda troppo a far credere d’aver tra le mani una giustificazione della vita, una speranza esterna e obiettiva che dia alla nostra vita una ragione sicura. Mentre forse è vero che uno scrittore, per dare veramente una speranza, non deve averne alcuna. O almeno, neanche una che sia sicura e preventiva».
E proprio qui? «L’interesse di fondo, affettivo, per dir così, è per la cultura lombarda. Soprattutto per le sue arti figurative. Sono quelli i miei testi, non è una novità : io guardo i quadri assai più di quanto non legga. Mi paiono sempre più materiati e meno facili a lasciarci adescare dalle chimere ideologizzanti…».
E i tuoi autori contemporanei, quali sono? «In pittura, seppure con molte riserve, Bacon. E comunque Caravaggio è il mio mito di sempre. E Ceruti, il Pitocchetto: per quanto concerne l’umano, l’amore e il sentimento umano, è sicuramente il più gran poeta che sia mai apparso. E quello che forse è stato l’ultimo momento d’allarme e ribellione totale nella cultura dell’uomo: il tragico connubio tra romanticismo e realismo che vide nascere Géricault, Delacroix, Courbet. E Gros. Quando entro nel salone del Louvre dedicato a quei maestri, ricevo una emozione e una spinta di vitalità  incomparabile. E’ strano, non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte, per farci amare la vita. O per non farcela odiare troppo».
Ma fra gli scrittori? «L’ultimo grande libro che ho letto rimane Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Ma in teatro, morto Brecht? Prendiamo Beckett: a me sembra più forte nel romanzo. Nel teatro mi pare troppo scopertamente favolistico, troppo esemplificatore. Tutti gli scrittori come lui mancano, secondo me, di quel fondo, di quelle radici e quelle viscere senza le quali ogni sforzo per arrivare a proposte universali diventa astratto. Si ha l’impressione che possa far tutto quello che vuole, manovrando i suoi manichini per portare una tesi a conclusioni estreme. E poi? Perché non fare i conti con cose più precise? Perché chiamare una certa faccenda Godot e non Dio? A me sembra una soluzione parziale: mentre in Kafka i personaggi chiamati con una lettera dell’alfabeto si riempiono sempre di un certo uomo, quelli di Beckett se ne vuotano continuamente».

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