Irachena uccisa in California Accanto un biglietto: «Vattene, terrorista»

by Sergio Segio | 26 Marzo 2012 7:22

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«Tornatene al tuo paese, terrorista». Un biglietto lasciato accanto ad una donna agonizzante con la testa fracassata a colpi di cric. Shaima Alawadi respirava ancora quando la figlia diciassettenne l’ha trovata in una pozza di sangue nel soggiorno di casa, vicino a San Diego, in California: la ragazza era al piano di sopra, ma non ha fatto in tempo a vedere l’aggressore. Ha visto il biglietto. Diceva le stesse cose di un messaggio trovato la settimana prima davanti alla porta di casa. «Questo non eÌ€ il vostro Paese, eÌ€ il nostro, terroristi».
Tre giorni di agonia, poi sabato pomeriggio i medici hanno staccato la spina. Shaima, 32 anni e cinque figli tra gli 8 e i17 anni, eÌ€ morta senza mai riprendere conoscenza, il suo sorriso eÌ€ rimasto stampato sulla foto pubblicata dai giornali, sotto l’hijab, il velo che le copriva i capelli lasciandole il viso scoperto.
Era arrivata dall’Iraq a metaÌ€ degli anni ‘90, la sua famiglia era cresciuta negli Stati Uniti. Durante la guerra il marito ha lavorato come mediatore culturale per le forze armate Usa: spiegava ai soldati l’Iraq, le consuetudini, i passi falsi da evitare una volta al fronte. Solo da qualche settimana si erano trasferiti in California: a San Diego c’eÌ€ una numerosa comunitaÌ€ irachena, la seconda negli Usa, una rete su cui contare. Quando Shaima ha trovato il primo messaggio di minacce, non lo ha preso sul serio. «Mia madre lo ha ignorato, pensando che fosse lo scherzo di qualche ragazzino», ha raccontato Fatima, la figlia maggiore. Un errore, secondo il Council on American Islamic Relations, l’organizzazione che difende i diritti dei musulmani americani. Perché le minacce sono molto piuÌ€ frequenti di quanto non ne vengano denunciate e restano sotto traccia, un problema invisibile.
La polizia conferma il ritrovamento di un messaggio di minacce, ma non privilegia la pista dell’odio xenofobo sulle altre. Gli investiga-tori parlano di un «caso isolato», ancora tutto da chiarire. Ma a pochi giorni dall’omicidio di un ragazzino nero, freddato in Florida da un vigilante bianco solo perché indossava un cappuccio e si trovava nel quartiere sbagliato, la morte di Shaima getta altro olio sul fuoco delle polemiche. Come per Trayvon Martin, sul web eÌ€ giaÌ€ partita una campagna di protesta. Non saraÌ€ una marcia degli incappucciati, come quelle che si sono svolte da New York a Chicago per chiedere giustizia e l’arresto dell’omicida, ma qualcosa di molto simile: «Un milione con l’hijab per Shaima»,. Su Facebook lo slogan appare con la foto di una ragazza velata: «L’hijab non porta scritto sull’etichetta “uccidimi”».
PRESIDENZA “POST RAZZIALE”
Due episodi diversi e terribili a distanza di poche settimane. E a sorpresa il tema della discriminazione irrompe nel dibattito nazionale, surclassando l’economia e il lavoro. L’America che con Obama pensava di aver archiviato il razzismo tra i reperti del passato deve ripetere a se stessa che un nero con un cappuccio non eÌ€ per forza un delinquente, un velo non fa un terrorista. «La presidenza Obama eÌ€ “post-razziale” solo nel senso che ci daÌ€ una scusa per non affrontare piuÌ€ la questione», scrive Reniqua Allen sul Washington Post. Una scusa, appunto, quando ancora negli Stati Uniti c’eÌ€ chi mette in dubbio i natali di Obama, e il suo diritto a stare alla Casa Bianca.
Quanto il tema sia divenuto sensibile con l’assassinio del ragazzino della Florida, lo dicono le parole del presidente americano e ancora di piuÌ€ le reazioni in campo repubblicano. Per la prima volta Obama ha parlato da afro-americano, da uomo con la pelle nera. «Se avessi un figlio, assomiglierebbe a Trayvon», ha detto, per testimoniare la sua vicinanza alla famiglia del ragazzo ma anche l’assurditaÌ€ di questo omicidio. Parole «vergognose» per Newt Gingrich, ex speaker della Camera oggi in corsa per la Casa Bianca. «La questione non eÌ€ a chi questo ragazzo somigliasse ha detto -. Ogni giovane americano di qualsiasi retroterra etnico dovrebbe essere al sicuro». Peccato che ci sia stato bisogno di manifestazioni di piazza per chiedere di incriminare l’assassino di Trayvon. E qui sta il punto. L’America che protesta non crede che le cose sarebbero andate nello stesso modo se a premere il grilletto fosse stato un nero: cappucci e hijab sono ancora una colpa.

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