La classe media impaurita ora premia i “moderati rossi”

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Non può finire in una misera battaglia per il copyright del «modello nordico» lo scontro tra i socialdemocratici e la destra svedesi, non lo merita un «marchio» che rappresenta uno dei maggiori successi della storia umana. È il successo di un sistema che garantisce la sicurezza sociale «dalla culla alla tomba», come dicono, qualche volta con inflessione vagamente negativa i critici, per suggerire un senso di oppressione e di fastidio per tanta cura paternalistica; eppure quel successo è fatto di un primato solidissimo e concreto nei servizi sociali, per l’infanzia, per gli anziani, di un primato nella flessibilità  degli orari di lavoro per la famiglia, nel dare più potere alle donne, nel promuovere il diritto allo studio e la mobilità  sociale, e insieme una economia florida e competitiva. Sono tutti elementi di quel generale progresso politico e sociale per il quale oggi si può dire, sinteticamente con Tony Judt, che la socialdemocrazia «è la prosa della politica contemporanea». Ci sono infatti ben pochi politici influenti, in Europa, che non condividano le premesse di fondo della politica che ha dato la sua fisionomia al Novecento, «il secolo socialdemocratico», secondo la celebre definizione di Ralf Dahrendorf. In Svezia si tratta di una verità  letterale, data la continuità  dei governi socialdemocratici (per 70 anni su 80), a partire dal 1932, con un partito, la Sap, sempre sopra il 40%, e anche il 50%, fino alla fine del secolo scorso, quando è cominciata una discesa (al 35%), seguita dalle sconfitte che hanno portato al governo, dal 2006, la coalizione moderata guidata da Fredrik Reinfeldt.
L’uso della formula «Nordic way» da parte dei moderati per intitolare la loro politica, cosa che suscita le reazioni irritate della Sap, guidata da Hà¥kan Juholt, è indicativo del fatto che anche i conservatori intendono assumere esplicitamente su di sé la bella eredità  cercando di sottrarla agli avversari. E questo è un problema comune a tante sinistre e coalizioni progressiste in Europa in questi anni, frastornate perchè non riescono a trovare le parole per riformulare e re-inquadrare le loro proposte, a far crescere i consensi in un momento che potrebbe essere loro favorevole. Nonostante la fase economica critica, di fronte ai danni di un sistema finanziario fuori controllo, a classi medie impaurite e con acute ineguaglianze sulla scena, i socialdemocratici e i riformisti, che erano al governo negli anni Novanta, sono ora nell’angolo e vedono eroso il loro elettorato. 
È indicativa la analoga vicenda britannica, dove il successo di Cameron è avvenuto sotto le insegne di una coalizione con i liberal-democratici e della formula della «Big Society», una strategia basata sul decentramento dei poteri amministrativi, sul volontariato, sul sostegno alla cooperazione e alle imprese sociali che forniscono servizi in luogo del pubblico, sulle iniziative caritative, sulla proposta di «ri-territorializzare» la finanza. Un insieme di idee ispirate da un teologo anglicano, Phillip Blond, e messe sotto la bandiera del «red toryism», il conservatorismo rosso, parente di analoghe esperienze canadesi e del «compassionate conservatism», evocato a suo tempo da George W. Bush, che tentava di combinare una fiscalità  iniqua a vantaggio dei ricchi con l’impegno morale nei confronti dei poveri, vale a dire che lo stato incoraggia ad aiutare i bisognosi, in forma di «charity», su base volontaria, ma senza provvedere direttamente. È chiara la differenza con il welfare difeso dalle sinistre, che insiste sulla natura di diritti sociali delle tutele pubbliche per previdenza, sanità , scuola, e sulla fiscalità  progressiva. Ha dunque le sue ragioni Ed Miliband quando sostiene che dietro quella «grande» maschera c’è «il piccolo stato», ovvero, i tagli alla spesa accompagnati da una retorica morale. 
Tuttavia le incursioni sociali della destra – da Londra a Stoccolma – non si appoggiano solo sul desiderio di far proprio il linguaggio solidaristico della «prosa» socialdemocratica, esse sono sospinte anche dalla strettoia economica che ha portato al limite di sostenibilità  la spesa pubblica. E questo è un problema che hanno di fronte sia la destra che la sinistra e che modifica profondamente il gioco politico, sfidandole entrambe su due terreni: il primo è quello di ideare e comunicare nuove soluzioni attraverso un cambio di paradigma delle politiche redistributive, il secondo è quello di sapere conquistare il terreno elettorale degli avversari sia con le idee che con coalizioni. Molto dipenderà  dunque dalla competizione tra destra e sinistra nella capacità  di innovare, di mettere in scena realmente una nuova configurazione del rapporto tra servizi pubblici, stato e società , dall’attivare iniziative nel cosiddetto terzo settore, nella capacità  di usare selettivamente le esenzioni fiscali, nel mobilitare le donazioni e il volontariato, nel risvegliare quel gigante burocratico addormentato che è la cooperazione.
La socialdemocrazia e il laburismo non hanno per niente un passato monocromatico di burocratico statalismo, la loro storia è carica, specie in Svezia, di intelligenza creativa (Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia insieme a Hayek nel 1974), di esperimenti arditi (il piano Rehn-Meidner per la partecipazione e la diffusione della proprietà  tra i lavoratori), di leader carismatici (Erlander, Palme), il che ha consentito loro di guadagnare consensi ben al di là  della base elettorale operaia. In Gran Bretagna con la Terza via di Tony Blair, con tre mandati di governo, il laburismo ha mostrato una enorme capacità  innovativa. Le critiche che poi ha ricevuto hanno rischiato di produrre un ripiegamento su posizioni minoritarie, anche perché i conservatori si sono alleati con i liberali, situazione analoga a quella svedese. Non è un caso che oggi sia il Labour che la Sap si trovino di fronte il problema di riesaminare il loro rapporto con la tradizione liberale e la necessità  di costruire una alleanza con i partiti centristi. L’ultimo documento emesso dal think-tank del partito (Policy Network) propone con chiarezza di adottare una strategia più realistica, di lungo termine e «coalition-building», se si vuole tornare a vincere. È una scelta che non riguarda evidentemente solo loro, ma tutta la sinistra europea.


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