La fine delle ideologie

by Sergio Segio | 15 Marzo 2012 19:32

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Gli indignati non riescono a fornire un progetto preciso della nuova economia, della nuova società  o dell’uomo nuovo, che dovrebbero sostituire i modelli dell’ancien régime. Tutte le terapie proposte sembrano parziali e nessuna ispira una fiducia assoluta.

Dopo il 1917 la Russia aveva trovato la sua formula magica: mettere tutto il potere nelle mani dei commissari politici e del partito unico, nazionalizzare il più possibile. Nel 1932 negli Stati Uniti si è preferito il New Deal: più Stato e commissioni pubbliche per rilanciare l’economia. Nel 1933 la Germania ha applicato una logica simile con in più l’obiettivo bellico: riprendere ai nemici e redistribuire al suo popolo, con le armi come motore di ripresa dell’economia e con le conquiste che    avrebbero ammortizzato i costi. Un Reich, una nazione, un capo supremo.

Dopo il 1945 non è stato difficile trovare nuovi mantra. A Est le parole d’ordine erano: nazionalizzazione, industria pesante, pianificazione economica centralizzata, l’individuo non è nulla il partito è tutto. A Ovest si parlava invece di approfittare degli aiuti, di creare delle comunità  con gli ex nemici, di dare vita a un’economia sociale di mercato, di concentrarsi sul pluralismo e sul libero mercato anche se controllato e tassato per finanziare le prestazioni sociali che avrebbero assicurato l’equilibrio sociale.

Questo modello ha dimostrato la sua efficacia in Europa, ha garantito la ricchezza e le libertà  individuali di cui hanno beneficiato tutte le ideologie uscite dalla tradizione del Diciannovesimo secolo: il liberalismo, il conservatorismo, il socialismo. Negli anni Settanta lo Stato assistenziale, nella sua forma socialdemocratica o democratico-cristiana, era il modello assoluto per gli abitanti dei paesi del “socialismo reale”.

Oggi questo modello è in crisi. L’economia è basata sulla fiducia nelle sue regole, sul fatto che il valore di una merce può essere convertito attraverso il denaro in un’altra merce. Prima della crisi i principali protagonisti dei mercati finanziari si sono fidati delle tecnologie di avanguardia, che avrebbero dovuto minimizzare le probabilità  di crollo. Ma quando questo si è verificato, si è fatto ricorso ai filosofi stoici dicendo che il futuro è imprevedibile e si è chiesto aiuto ai governi. A sua volta la popolazione ha fatto ricorso alla retorica religiosa, criticando la cupidigia e l’avarizia (uno dei peccati capitali nella religione cristiana) e chiedendo il pentimento.

Oggi è impossibile tornare ai modelli utilizzati in passato. E non vi è una risposta semplice e univoca. Le ideologie classiche hanno perso il loro potere di persuasione. Certo, si può sempre difendere la tesi che l’avvento dell’era post-ideologica è solo una manifestazione della cosiddetta ideologia neoliberista dominante, che avrebbe deliberatamente confuso le differenze fra destra e sinistra, fra socialismo e conservatorismo per aumentare la sua egemonia. Tuttavia oggi è molto diffuso il sentimento che non sono le ideologie ad animare la storia ma  dei fattori completamente diversi, cioè i mercati.

Le ideologie tradizionali si sono costruite nella certezza giunta con l’Illuminismo che il mondo è una materia malleabile e plasmabile dall’uomo secondo le sue volontà  e sulla base di piani razionali. Tuttavia per spingere la gente a credere in un progetto lo si deve sostenere con una storia appassionata, una storia quasi biblica di espulsione dal paradiso e di arrivo nella terra promessa. Per i conservatori questa storia era il ritorno al periodo eroico; per i marxisti una società  senza classi; per i nazionalisti uno Stato nazionale unito dalla solidarietà ; per i liberali un regno di libertà . Gli intellettuali invece, tradizionali produttori di ideologia, non credono nell’esistenza di una leva talmente potente da sollevare le fondamenta del mondo.

La fine dell’ideologia non è ovviamente la fine della politica. Quest’ultima segue la sua strada, ma ha il fiato corto. I tradizionali partiti ideologici, come i cristiano-democratici, i socialdemocratici, i liberali e i conservatori, sono sempre più deboli. L’erosione ideologica indebolisce l’adesione politica. In un contesto in cui i partiti politici fanno fatica a mettere in evidenza le loro differenze, viene meno l’accettazione stessa del sistema dei partiti e tutte le controversie assumono un carattere artificiale, finendo per alimentare solo il narcisismo dei principali attori politici.

Chi emerge da questo contesto è il classico politico populista, senza alcun progetto e visione per il futuro; del resto sa bene che non è questo che interessa ai suoi elettori. Nei movimenti ideologici di un tempo la rabbia era concentrata, il risentimento poteva facilmente dare vita a un ethos collettivo. Il populismo attuale è solo un modo per dare sfogo alle frustrazioni e alle tensioni; provoca solo rivolte e distruzione, e non porterà  di certo a un nuovo Lenin, Stalin o Hitler.

Se guardiamo alle catastrofi prodotte dall’era ideologica del Ventesimo secolo non siamo nella situazione peggiore. Ma neppure nella migliore, perché la crisi ideologica si accompagna a una crisi fondamentale della fiducia nella politica. I cambiamenti di persona sembrano casuali. E l’attività  politica, anche se non porterà  al vertice dello Stato dei tiranni, non sarà  neanche capace di generare dei veri statisti.

Traduzione di Andrea De Ritis

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