La Green economy dell’oro blu

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Un testo che tende a rafforzare il meccanismo del full recovery cost e a collocare l’acqua nel quadro della cosiddetta Green Economy. In pratica si auspica un sistema di finanziamento del servizio idrico che coniughi le tariffe, gli investimenti privati e la mobilizzazione di risorse pubbliche e un ulteriore accelerazione alla costruzione di grandi impianti idroelettrici. Un sistema che non fa alcun riferimento alla risoluzione delle Nazioni Unite, che nel 2010 ha dichiarato l’accesso all’acqua un diritto umano universale e fondamentale.
Un’omissione gravissima, voluta dal Canada, che all’ultimo momento ha fatto cambiare il testo cancellando ogni riferimento alla risoluzione nel silenzio assenso degli altri governi, eccetto la Bolivia che si è rifiutata di firmare la dichiarazione.
Della finanziarizzazione dell’acqua e di Green Economy si è parlato ieri in una delle tre conferenze di convergenza organizzate dal Forum Alternativo anche in vista del Vertice Rio+20 sullo sviluppo sostenibile, in programma a giugno prossimo.
Un tema cruciale, in un momento in cui si cerca una via d’uscita alla crisi sistemica del capitalismo finanziario e si punta sull’economia verde per continuare a produrre profitto. In altre parole, l’attacco che i mercati stanno sferrando, con la complicità  dei governi, è quello della radicale finanziarizzazione delle risorse naturali. L’obiettivo è quello di collocare in maniera sistemica i beni comuni nell’alveo finanziario.
L’acqua è ancora oggi la risorsa meno finanziarizzata rispetto al petrolio, la terra, il cibo e le altre materie prime. Se il processo di privatizzazione dell’acqua è in stato avanzato, quello di mercificazione inizia oggi a essere concettualizzato e promosso dalle èlite economiche e speculative.
Dal forum alternativo si leva la denuncia del vero obiettivo che si nasconde dietro il linguaggio della dichiarazione intergovernativa firmata in casa del Consiglio Mondiale dell’Acqua, associazione di diritti privato che riunisce le principali multinazionali del settore e che ha organizzato il meeting Marsigliese.
Ovvero la trasformazione dell’acqua in una commodity commercializzabile attraverso un sistema di vendita globale di diritti di sfruttamento. In alcuni Stati degli Usa, in Cile, in Sudafrica, in Australia e alle Canarie questo sistema è già  vigente e altri paesi stanno considerando l’introduzione di questo modello. Se questo sistema fosse adottato a livello globale si verrebbe a creare una vera e propria borsa dell’acqua, dove sarebbe possibile comprare e vendere i diritti di sfruttamento, così come già  avviene con le materie prima e con i crediti di carbonio previsti dal Protocollo di Kyoto. Chi ha un surplus di acqua o chi ha precedentemente acquisito a fini speculativi i diritti di un fiume, una falda o un lago potrebbe rivenderli a chi ha un deficit idrico. Possedere una certa quantità  d’acqua significherebbe avere un asset finanziario in grado di generare una rendita. Sarebbe inoltre possibile strutturare sull’acqua tutti prodotti finanziari derivati.
L’allarme è stato lanciato durante il suo saluto al forum alternativo anche da Catarina de Albuquerque, special rapporteur delle Nazioni Unite per il diritto all’acqua, che ha evidenziato come il linguaggio della dichiarazione sia teso a marginalizzare il percorso di riconoscimento del diritto all’acqua avviato nel 2010. E’ sempre più necessario riportare il dibattito sulle risorse idriche globali in una sede legittima e istituzionale ed in questo senso è responsabilità  delle Nazioni Unite mettere in piedi un’iniziativa che sottragga alle multinazionali la guida politica e faccia saltare il prossimo appuntamento del Forum Mondiale dell’acqua (organizzato dal Consiglio Mondiale dell’Acqua, associazione di diritto privato che riunisce le multinazionali del settore) previsto in Corea del sud nel 2015.
* Crbm


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