La posta in gioco è la democrazia

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Lo sciopero generale di oggi in Spagna si tiene in uno contesto paradigmatico: con un’evidenza che non potrebbe essere maggiore, emerge la natura della crisi democratica in cui versa l’Europa contemporanea. Da un lato, infatti, c’è una cittadinanza che sta cominciando a mostrare di non condividere la strada intrapresa dal governo nazionale: la sconfitta (perché di questo si tratta) del Partido Popular (Pp) alle regionali in Andalusia e nelle Asturie è stata il preludio alla mobilitazione odierna. Dall’altro lato, risulta chiaro che ciò che davvero conta per orientare le decisioni dell’esecutivo di Mariano Rajoy non è l’opinione dei governati, ma quella dei poteri reali che, in questa fase, determinano le sorti del nostro continente: il conglomerato egemonico formato dai governi dei Paesi «forti» dell’Unione europea, della Commissione, della Banca Centrale e, ormai, anche del Fondo Monetario Internazionale. 
Si dirà : il Pp ha vinto le recenti elezioni politiche e la maggioranza assoluta di cui gode in Parlamento gli offre una più che solida legittimazione. Vero, per carità : ma solo se si crede che la democrazia consista esclusivamente nel fatto che i governati depositino ogni lustro una scheda nell’urna. Anche ammettendo che sia così, sorgerebbero in realtà  già  dei problemi. La destra spagnola, infatti, tutto ha annunciato in campagna elettorale fuorché le misure che ora sta adottando: l’aumento delle tasse dei lavoratori dipendenti, il taglio dei finanziamenti allo stato sociale e dei trasferimenti alle amministrazioni locali, e, soprattutto, la «riforma» del mercato del lavoro. Visti i tempi che corrono, questo «scrupolo democratico» può anche risultare un dettaglio di poca importanza e un argomento tutto sommato debole: una classe dirigente, in fondo, può sempre giustificarsi adducendo le proverbiali «mutate condizioni» nella quali si trova ad operare, e che la costringono ad assumere le altrettanto consuete «decisioni impopolari». Nessun governo può, nemmeno volendo, «distribuire caramelle», in questo frangente storico: questo è il leitmotiv delle destre liberiste («tecniche» o «politiche») al potere. No, a mettere a nudo la crisi democratica non è tanto la frode che suppone il promettere una cosa e mantenerne un’altra. È la sensazione che se anche la buona riuscita dello sciopero di oggi dovesse confermare il disaccordo della cittadinanza verso le misure del governo, cambierà  poco o nulla. L’esecutivo spagnolo lo lascia tranquillamente intendere e c’è ragione di credergli. 
La mobilitazione odierna è inutile, allora? Ovviamente no: al contrario, è fondamentale almeno per due ragioni. In primo luogo, perché senza una risposta negativa di massa, Rajoy e i suoi ministri si farebbero ancora meno scrupoli e, soprattutto, potrebbero sostenere con più facilità  che «il Paese è con loro». Perché le destre e i poteri economici trattano sì lo sciopero come un’anticaglia, ma lo chiamano in causa spesso e volentieri a sostegno delle proprie tesi quando esibiscono le poche ore di astensione dal lavoro indette per contrastare le loro scelte. In Italia è successo di recente con l’allungamento dell’età  pensionabile: all’esecutivo Monti-Fornero è costato «solo» due timide ore di sciopero, servite a dimostrare che, in fondo, la gente non è poi così contraria. La seconda ragione della protesta di oggi, ed è ciò che più conta, risiede nel fatto che la mobilitazione spagnola potrà  servire soprattutto a mostrare la tensione ai limiti dell’insopportabile (anzi, già  oltre) che c’è fra la democrazia e i poteri di fatto che sfuggono completamente al controllo e all’influenza dei cittadini. Poteri impermeabili e «fuori misura», collocati in un lontano «altrove» e avvolti nella cortina di fumo della «tecnica», che decidono l’entità  delle manovre finanziarie e dettano ai governi nazionali ogni singolo comma delle norme che stravolgono il diritto del lavoro.
Se questa contraddizione non emerge, e con forza, per l’Europa – non solo per il suo modello sociale – non c’è futuro. È fondamentale una sorta di «disincantamento» di questi poteri di fatto: occorre disvelarne la natura pienamente politica e non «tecnica». Questo è il senso ultimo dello sciopero generale di oggi. Ed è un messaggio che deve essere formulato con sempre maggiore chiarezza dagli unici ad avere la forza residua per farsi sentire davvero: i lavoratori e le loro organizzazioni. Con la consapevolezza che, forse, non si potranno bloccare subito le «riforme» che i poteri reali prima «raccomandano» e poi «salutano positivamente», una volta che gli obbedienti governi nazionali le mettono nero su bianco in leggi e decreti. Ma con la certezza che senza giornate di lotta come questa non potranno costruirsi, in Spagna e ovunque, le basi della svolta necessaria verso un’Europa democratica e sociale.
Senza il protagonismo di lavoratori (stabili e precari), disoccupati e pensionati, organizzati in sindacati forti e combattivi, il vecchio continente finirà  dilaniandosi in una competizione (che già  è cominciata) fra egemoni e periferici e, ancor peggio, fra periferici di prima e di seconda categoria, a cui lo sta conducendo l’attuale élite. Come interpretare altrimenti le parole di Monti che si dice preoccupato perché Rajoy non fa abbastanza per contenere il deficit pubblico, se non come una prova del fatto che il debole specula in modo miserabile, per qualche punto di spread in meno, sulle disgrazie del vicino ancor più debole? Se Monti rappresenta l’europeismo, allora l’Europa è già  morta, o è meglio che muoia in fretta. Se invece il movimento sindacale riesce a dare uno scatto di reni e a unificarsi a livello continentale, allora non tutto è perduto per l’ideale europeo democratico e sociale. Il momento in cui ciò finalmente avvenga è indifferibile: gli scioperi nazionali sono necessari, ma non sufficienti. Ieri a Madrid si è svolta una grande assemblea con i massimi dirigenti della principali organizzazioni dei lavoratori, dalla Dgb tedesca, alle confederazioni francesi, alla nostra Cgil con Susanna Camusso, giunti a sostenere la mobilitazione spagnola: un ottimo segnale che deve condurre, in fretta, a qualcosa di più. A un vero sciopero generale europeo: l’unica risposta forse davvero all’altezza della sfida che ha di fronte la democrazia nel nostro continente.


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