La rivalità  dentro la famiglia Un fratello su due litiga per sempre

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Antonio e Luca Doni hanno messo su famiglia a un paio di chilometri di distanza dalla casa dei genitori, sul Lago di Garda, ma non si parlano da vent’anni: nessuno dei due si ricorda esattamente il perché. Agata invidia Marta per la sua bellezza e il suo successo come legale in una multinazionale di Lugano, Marta è gelosa di Agata per il suo legame con il marito e per i loro tre figli: le notti di Natale nella grande casa di famiglia sulle colline toscane sono per entrambe tormentate, ma da quanto è morto il babbo per il pranzo è scattato un patto di non belligeranza.
I dispetti da bambini, le azzuffate da adolescenti, le liti urlate e silenziose da adulti: la rivalità  tra fratelli non si esaurisce con la maturità , al contrario cresce con l’età  e ce la si porta appresso per tutta la vita. E come Antonio e Luca non sanno spiegare esattamente il perché della loro guerra senza battaglie, molti ignorano quello che nel rapporto con il fratello o la sorella c’è di sbagliato. Anche se le relazioni fraterne sono le più lunghe della nostra vita, durano anche ottant’anni e più, in un caso su due (o quasi) sono conflittuali: il 45% degli adulti, ha scritto qualche giorno fa il Wall Street Journal, ha un rapporto di rivalità  o distanza con un fratello. «Un fenomeno nascosto e dannoso proprio a causa di quel non volerne parlare», sintetizza Jeanne Safer, psicoterapeuta statunitense. Nel suo libro «L’eredità  di Caino: liberarsi da una vita da fratelli piena di rabbia, vergogna, segreti e rimpianti» ha messo in fila le storie di fratelli adulti alle prese con conflitti per i soldi, per il lavoro, per i genitori che invecchiano, per ferite mai rimarginate, per parole mai dette. Persone che parlano un vero e proprio linguaggio del risentimento: «Sei sempre stato il preferito di mamma»; «mamma e papà  sono sempre a casa tua ma da me non hanno mai messo piede»; «non mi hai mai chiamato». Affermazioni alle quali è difficile dare risposta senza andare incontro a conseguenze che è difficile gestire. La rende in metafora la psicoterapeuta: «È una passeggiata sulle uova tutta la vita».
La rivalità  è un aspetto normale dell’infanzia. I fratelli sono i primi avversari. «Con loro si entra in gara per ottenere la stima del padre e l’amore della madre, anche se con loro si solidarizza nei momenti difficili e grazie proprio alla competitività  si cresce», spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che aggiunge: «Le battaglie fratricide, che hanno radici biologiche, sono guerre civili: di tortura, senza prigionieri, durissime. Che cessano però, di solito, quando si esce dalla famiglia». Di solito. Magari all’apparenza. In un caso su due invece la distanza così come la costruzione della propria identità  non basta. «Molto dipende dal carattere di ciascuno così come dal comportamento dei genitori durante l’infanzia — aggiunge la psicoterapeuta Anna Oliverio Ferraris —. Quando poi entrano in gioco i coniugi, ecco una nuova variabile che può placare o rinfocolare i contrasti». 
Dalla competizione biblica di Caino e Abele a quella shakespeariana tra le figlie del Re Lear, fino ai contrasti che dominano alcuni casi clinici di Freud. Jeanne Safer fa una distinzione tra lotta e rivalità  tra fratelli. La lotta, meno comune, è quel degenerare della rivalità  che per scontri di personalità  o vero e proprio odio allontana i fratelli. La rivalità , invece, contempla un normale grado di disaccordo e competizione: «Tra gli uomini è spesso palese e si concentra su cose come la stima del padre, la prestanza atletica, i soldi, il successo. Tra le donne è meno diretta e più spesso ha a che fare con affetti e bellezza. Gli uomini cercano di rimediare con le azioni, le donne con le parole». 
Spiega la sociologa Chiara Saraceno: «In un passato lontano scandito da ordini di nascita e ceti sociali, la rivalità  era verticale, più evidente e socialmente strutturata. Oggi è orizzontale e senza regole, più nascosta e più individuale, più legata alla personalità , al successo professionale, alla dimensione affettiva». Ma rispetto a quel passato lontano, più forte o più debole? «Forse più forte. Ma sia chiaro: la competizione in sé non è una brutta cosa, aiuta a crescere, a formare la propria individualità . Un tempo, con le famiglie più numerose, c’erano più piani di scontro. Oggi, con le famiglie più ristrette (o allargate) ma piene d’aspettative individuali, ci sono più figli unici in pectore anche quando hanno fratelli e le ferite narcisistiche fanno più male». E meno si dimenticano.


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