LA SPOON RIVER DELLA CRISI

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Ieri un operaio edile di origine marocchina si è dato fuoco davanti al municipio di Verona, è stato soccorso in tempo, era “senza stipendio da quattro mesi”. L’altroieri il piccolo imprenditore edile a Bologna, accanto alla sede delle Commissioni tributarie. Si può andare indietro e trovarne uno al giorno, operai disoccupati, artigiani, imprenditori. Sta diventando l’altra faccia dei bollettini delle morti cosiddette bianche. Caduti sul lavoro, caduti per il lavoro. Una Spoon River della crisi. Giuseppe C., il bolognese di 58 anni di cui hanno raccontato qui asciuttamente Michele Smargiassi e Luigi Spezia, la sua pagina se l’è scritta da solo. “Caro amore, sono qui che piango. Stamattina sono uscito un po’ presto, ho avuto paura di svegliarti௿½ Chiedo a tutti perdono”. Parole pronte per una bella canzone di Lucio Battisti. L’ha scritto anche al fisco: “Chiedo perdono anche a voi”. Una frase terribile, ora che qualche disgraziato ha messo le sue bombe alle porte di Equitalia, e non si può più dire che “bisognerebbe metterci una bomba௿½”. Imprenditori si impiccano, e curano di farlo nei loro capannoni, nel giorno festivo o fuori dall’orario di lavoro. La classe dirigente, le persone di cui ieri si pubblicano i “maxistipendi” ௿½ le maxipersone di cui si pubblicano gli stipendi – saranno magari altrettanto commosse dell’umanità  minuta per questo stillicidio di immolazioni disperate. Il fatto è che ai nostri giorni i poveri e gli impoveriti e soli che si danno fuoco hanno fatto tremare i potenti del mondo più di un esercito di forconi. 
Questo contagio di suicidi è infatti un segno di resa e di solitudine, ma non solo. È una rivendicazione estrema di dignità . Fa ricordare, dopo una lunghissima parentesi, quella onorabilità  borghese per la quale ci si vergognava di una rovina, anche la più onesta, e si scriveva una lettera di amore e di perdono alla famiglia. Affare di gente all’antica: con tangentopoli, i suicidi furono pochi e soprattutto “di rango”, che li dettasse la protesta o la disperazione, mentre un’intera classe dirigente mostrava una pusillanimità  incresciosa, ed è stata quella tempra a farla durare, passata la piena, e continuare come e più di prima, salvo non vergognarsene più e non correre più in presidenza a denunciare il cognato. Quella dignità  all’antica sembra ritornata negli operai restati senza lavoro, negli imprenditori che si danno del tu coi propri dipendenti e se ne sentono responsabili, negli stranieri che avevano fatto il loro pezzo di salita e si vedono di colpo riprecipitati in fondo.
È questo, la crisi, per tanti: non sapere più come fare, e non rassegnarsi alla destituzione della propria personalità . Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo. E non è vero che lo si ceda al prossimo della fila, quel posto sgombrato. Si sono inventati, non so se prima la parola o il fatto, non so se più offensivo il fatto o la parola, gli esodati. Se non ci fossero sindacati e parti politiche e sollecitatori d’opinione a sostenerli, di quale loro gesto si potrebbe stupirsi? È ora, e non durerà  a lungo, il tempo di non lasciarli soli: è già  un tempo supplementare. Lo sciopero del 13 aprile è un intervento di protezione civile, una scelta fra la dignità  solidale e la commiserazione. Le persone che si arrendono, fino al gesto estremo, sentono d’essere abbandonate, “da tutti”. Creditori che la pubblica amministrazione non paga. Imprenditori cui non mancano le commesse ma la fiducia delle banche. Gli uni e gli altri che finiscono in mano agli strozzini. I più grossi se la cavano meglio: hanno i più piccoli cui negare il dovuto. La vicinanza fra morti sul lavoro e morti per il lavoro non è solo simbolica. La crisi spinge a fare in fretta, a risparmiare sulla sicurezza. Costa 100 euro la macchinetta per misurare l’ossigeno nei siti confinati da ripulire, e però gli operai ci si calano lo stesso, i primi a lavorare, gli altri a soccorrerli, e gli uni e gli altri a soffocarci, dipendenti e padroncini. Si muore sotto vecchi trattori rovesciati senza protezione, nonostante leggi e circolari. 
Ieri si dava la cifra di un migliaio di suicidi nell’ultimo anno per ragioni economiche legate alla crisi. E in questa situazione volete ancora parlare di articolo 18? Proprio così. Per dire questo, che non è un argomento tecnico, nemmeno di quella tecnica sindacale che ha un importante valore sociale. È un affare di libertà  e di dignità  delle persone. Delle persone minuscole, della loro libertà  con la minuscola. Benvenuti gli appelli a liberarsi dagli ideologismi (una volta o l’altra bisognerà  richiedersi che cosa intendiamo per ideologia). Benvenute le cifre che spiegano come siano rari i casi in cui si è applicato il reintegro previsto dall’articolo 18 (e allora perché ci tenete tanto?). Ci saranno pure di qua cuori con un debole per l’ideologia e menti renitenti alle nude cifre, ma le persone che lavorano sentono dire “libertà  di licenziare” e pensano che voglia dire libertà  di licenziare. Pensano che se i casi sono stati così rari, dev’essere stato anche grazie a quell’articolo 18. E che una volta che lo si sia tolto di mezzo, i casi diventeranno molto meno rari. Che trasferire sulle spalle dell’operaio l’onere di provare che il suo licenziamento “economico” sia pretestuoso, è l’inversione della prova.
E soprattutto sentono che perdere il lavoro è come vedersi crollare il mondo addosso, a sé e alla propria casa. La rovina: e le 15 mensilità  al posto del lavoro non ripagano la rovina, ma le aggiungono l’umiliazione. Sbagliano governi e parlamenti a fare come se questi fossero affari di preti, di pompieri e di assistenti sociali. Il movimento operaio è passato attraverso l’ideologia del lavoro e anche l’ideologia del non-lavoro. Non ci si dà  fuoco da soli, chiedendo di lasciare in pace la propria donna, per un’ideologia. Lo si fa per una fede offesa, come i giovani tibetani, o per una destituzione di sé, come un padre di famiglia italiano di 58 anni.


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