«Chiuderemo l’intesa entro sette giorni»

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Non è una sorpresa per chi guardi al merito delle cosiddette «riforme» piuttosto che alle dichiarazioni di circostanza. Come sulle pensioni, infatti, il governo arriva alla fine del «confronto» con l’identico testo messo sul tavolo fin dall’inizio. Spazzando via i distinguo e le «manutenzioni» che per settimane hanno tenuto banco sui giornali, ma non dentro il palazzo. Su Rai e giustizia, al contrario, si può tranquillamente trovare un punto di equilibrio con gli interessi dei partiti che devono votare i provvedimenti decisi dentro palazzo Chigi; su chi comanda nei luoghi di lavoro o su quanta parte della ricchezza prodotta vada all’impresa e quanta alla «manodopera», no. Neppure sui tempi viene ammessa discussione: «la settimana prossima si chiuderanno le trattative sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali». Anche perché è sua intenzione «andare con il governo e le parti sociali che vorranno in Germania, Regno Unito e altrove, così come si fanno i road show industriali per presentare la maggiore attrattività  economica in Italia» garantita dalla macelleria sociale che sta promuovendo.
Concetti ripetuti negli incontri informali avuti ieri a marine del convegno Cambia Italia – la fantasia ormai scarseggia anche nei titoli… – organizzato da Confindustria in occasione dell’addio di Emma Marcegaglia alla poltrona di presidente di Confindustria. Proprio viale dell’Astronomia era stata la più determinata a chiedere modifiche al testo, protestando per «l’aumento del costo del lavoro» previsto per scoraggiare gli abusi cui contratti a termine. Ma anche i sindacati avevano mostrato aperto scetticismo sulla possibilità  di arrivare a un’intesa, soprattutto su ammortizzatori sociali e art. 18. La più esplicita è stata ancora ieri mattina Susanna Camusso, segretario generale della Cgil: «siamo belli lontani da un accordo, mi sembra complicato trovare un’intesa e che la trattativa si concluda martedì». Raffaele Bonanni, leader della Cisl, se l’era invece presa proprio con la Cgil, accusata di «giocare al massacro» perché senza un cedimento radicale dei sindacati ora «il governo farà  da solo e sarà  una riforma più dura».
Su questo, Monti ha tagliato i ponti: «se veramente teniamo al futuro e crediamo gli uni degli altri, allora bisogna cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Chi deve cedere e cosa? Il sindacato, à§a va sans dire, naturalmente anche sull’art. 18. «Il ministro Fornero ha pronto un testo incisivo che prevede subito interventi volti a eliminare la segmentazione tra precari e lavoratori a tempo indeterminato e che modifica immediatamente l’articolo 18 per i nuovi assunti», ha chiosato per sgombrare il campo dagli ultimi dubbi. Incidentalmente, si aprirebbe così un nuovo «doppio regime» tra i «vecchi» che mantengono un art. 18 svuotato di efficacia e i «neoassunti» che ne sarebbero privi da subito. E per sempre.
Ma la sua è stata una poderosa offensiva su molti temi scottanti ancora aperti. Sulla Tav in Val di Susa non ha lasciato spiragli. «Quante volte abbiamo sentito dire soprattutto da sinistra, che bisogna che la Ue superi una visione arida e finanziaria e che serve più attenzione per la crescita: la Tav rientra alla lettera in questo auspicio. È un opera che l’Europa ha voluto e finanziato, che l’Italia ha voluto e che la Francia ha già  fatto». Sui finanziamenti, in realtà , l’Europa ha fin qui dato ben poco, e ancor meno darà  nei prossimi anni, visto proprio il vincolo di pareggio in bilancio imposto a tutti i paesi. Quanto alla Francia, il premier è incorso in un tipico sfrondone berlusconiano: sul versante francese, infatti, i lavori sono fermi. Appena tre «sondaggi», quasi immediatamente richiusi. Soprattutto, stanno crescendo le perplessità  sulla convenienza dell’opera rispetto alla «prevista crescita del Pil». Dubbi espressi, nello scorso dicembre, dall’Agenzia Nazionale per l’Ambiente d’oltralpe, con un lundo documento che affronta tutte le criticità  negative di lavori tutti ancora da effettuare. 
Definitive, infine, anche le parole di Monti sulla Fiat. «Credo che il rapporto fra l’Italia e la Fiat sia un rapporto che ha avuto una grande importanza storica, ma credo che non sia stato sempre un rapporto sano». Gli si potrebbe quasi dar ragione, pensando a quanta politica sbagliata della mobilità  questo «rapporto malato» abbia prodotto. Ma il punto vero era un altro: «chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le sue localizzazioni più convenienti». La traduzione è semplice: non faremo nulla per trattenere Marchionne & co. qui in Italia. Mica siamo come Obama, noi…


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