«Donna conviene», ma non basta
Esso ricorda episodi storici, storie vere e altamente simboliche: le lotte delle donne lavoratrici che all’inizio del Novecento richiedevano elementari diritti sindacali. Un rituale, certo, non diverso dal Centocinquantesimo dell’Unità italiana. Ma i rituali hanno la funzione di rafforzare la coscienza collettiva, i valori sostenuti da una comunità : non sono una frivolezza che distrae dalle pratiche politiche, ma ricordano gli ideali che le sottendono, ne indicano gli orientamenti di fondo e la loro gerarchia. E sono tre le parole chiave tradizionali dell’8 marzo: diritti, lavoro, internazionalismo. A queste va aggiunto un nuovo concetto che si è fatto strada di recente: «donna conviene», conviene alle imprese e all’economia. Le vecchie parole chiave si riferivano a diritti, a domande sostenute in termini di giustizia, costituiscono un ethical argument a sostegno delle rivendicazioni femminili. Il nuovo concetto è un business argument: i due argomenti spesso si rafforzano l’un l’altro ma sono ben distinti, come dire è giusto e oltretutto conviene. E dunque hanno ragione quegli studiosi, come Maurizio Ferrera, che hanno sostenuto il «fattore D» come un grande motore dello sviluppo economico, specialmente in Italia dove il lavoro femminile è gravemente sottoutilizzato.
Certo, conviene. Ma la conciliazione tra il business argument e l’ethical argument, tra convenienza economica e diritti, richiede una rivoluzione, politica e intellettuale ancor prima che organizzativa. Richiede che la visione corrente secondo la quale le rivendicazioni femminili sono da un lato una lamentela da vittime, dall’altro un lusso che l’economia non si può concedere, vada profondamente modificata. Le donne sono portatrici di domande di cui la società intera, non solo le donne, si deve far carico, da un lato domande di eguaglianza di opportunità nel lavoro, dall’altro domande di cura (per i bambini, gli anziani) da cui dipendono gli equilibri demografici e il benessere collettivo.
Domande sinora trascurate. Ed è per questo che vediamo con molto favore che sia oggi, in Italia, un solo ministro, e per giunta una donna preparata e autorevole, a capo dei tre settori sulla cui intersezione si gioca la definizione di una seria agenda per il lavoro femminile: lavoro, welfare e pari opportunità . Ci rendiamo conto della difficoltà del compito, molto innovativo rispetto alle agende del passato. Oggi la globalizzazione e la feroce concorrenza che essa provoca sembrano giocare contro l’internazionalizzazione, una delle parole chiave dei movimenti operai dell’inizio del secolo scorso. Le difficili condizioni economiche in cui versa l’economia italiana scoraggiano innovazioni organizzative i cui esiti in termini competitivi non sono facilmente prevedibili. Rende esitanti rispetto a modificazioni degli orari di lavoro, per gli uomini e per le donne, che consentirebbero di rendere sinergici ilbusiness e l’ethical argument, la convenienza e l’equità : come dice Susanna Camusso nella prefazione a O i figli, o il lavoro, il nuovo libro di Chiara Valentini, «si dà per scontato nel lessico pubblico che il lavoro può essere organizzato solo come avviene ora, che debba ricevere la totale disponibilità delle persone». Dunque, non solo asili nido e servizi, ma una riforma dell’organizzazione del lavoro oltre a quella del mercato del lavoro, che coinvolga donne e uomini e non faccia della «conciliazione» famiglia-lavoro, come dice Chiara Saraceno, «un affare per donne».
Docente di Sociologia
all’Università Statale di Milano
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