L’età  adulta dei paesi emergenti

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Le locomotive emergenti erano passate quasi indenni attraverso lo shock sistemico del 2008-2009, grazie a robusti programmi di spesa pubblica e alla tenuta della domanda interna. Ora i segnali di difficoltà  si moltiplicano anche per loro. La Cina, abituata a tassi di crescita del 10% annuo, nel 2012 dovrà  “accontentarsi” di un aumento del Pil del 7,5% (previsioni governative). Il Brasile dal 7,5% è sceso a una velocità  di crescita del 4,5%. In parte i Brics soffrono di problemi creati dall’Occidente. L’America con la sua politica monetaria ultra-espansiva ha inondato il pianeta di liquidità , che nei Brics genera inflazione e bolle speculative. L’Europa con l’austerity si fabbrica in casa una seconda recessione, deprime i consumi e riduce la domanda di prodotti “made in China”. Ciascuno dei Brics vede affiorare debolezze specifiche. Pechino rischia la “malattia di mezza età ” descritta da un recente rapporto della Banca mondiale: una sindrome ben nota perché fu sofferta da Giappone e Corea del Sud. È una crisi che colpisce nazioni “a reddito medio”, in quella fase di transizione che segue il primo decollo industriale: non si può andare avanti all’infinito con un modello di sviluppo fondato su bassi salari e trainato prevalentemente dalle esportazioni; bisogna riconvertirsi su produzioni ad alto contenuto tecnologico, alzare i salari, dare più spazio ai consumi interni, creare un Welfare State. 
La transizione non è stata facile (né perfettamente compiuta) in Giappone. Tanto meno lo è per la Cina, che ha una popolazione dieci volte più numerosa, vaste regioni ancora sottosviluppate, un regime autoritario legato a doppio filo agli interessi della lobby industriale dell’export. I vertici della Repubblica Popolare, impegnati proprio quest’anno in un avvicendamento generazionale, s’interrogano anche sul loro ruolo nel mondo. La Cina si rende conto che è arrivata a un tale livello di potenza, da dover assumere maggiori responsabilità  nella governance dell’economia globale. Il suo ministro del Commercio estero Chen Deming ieri a New Delhi ha ribadito ciò che era stato annunciato dal presidente Hu Jintao: «la Cina contribuirà  ad aiutare l’eurozona», sia con una partecipazione al fondo salva-Stati, sia con investimenti esteri diretti. È una generosità  interessata: il Giappone fece lo stesso con l’America di Ronald Reagan, per salvare il proprio cliente più importante.
India e Brasile indicano però delle possibili ricette alternative. Il governo di New Delhi, proprio mentre ospita il summit dei Brics, sta aggiungendo nuove misure a un armamentario di leggi protezioniste: ora minaccia una tassa sui capitali stranieri investiti alla Borsa di Mumbai (200 miliardi di dollari, il 17% di tutta la capitalizzazione del mercato azionario indiano). È dal 2008 che l’India ha imboccato un graduale ripiegamento protezionista, segnalato da gesti punitivi contro la speculazione finanziaria e le multinazionali straniere. Dal mondo angloamericano piovono dure critiche contro questo “ritorno ai vizi del passato”, ma l’India può esibire una crescita ancora sostenuta e ormai pressoché uguale a quella cinese. La sua caratteristica è di essere trainata dalla domanda interna, quindi meno vulnerabile ai cicli americani o europei. Il Brasile ha una ragione in più per fare ricorso a misure protezioniste: la presidente Dilma Rousseff ritiene che l’industria brasiliana è stata penalizzata dalla “guerra delle valute” fra Washington e Pechino, con il real che si rivalutava eccessivamente rispetto a dollaro e renminbi. Al vertice di New Delhi il governo indiano ha messo all’ordine del giorno la creazione di una nuova banca multilaterale dei Brics, una sorta di “Fondo monetario delle potenze emergenti”, e la Cina è pronta a finanziarlo in renminbi varcando una nuova tappa nell’internazionalizzazione della sua moneta. È un passaggio cruciale: gli emergenti entrano nella loro età  adulta, e vogliono dotarsi di istituzioni comuni, per diventare qualcosa di più di un “club”, forse l’embrione di una vera coalizione.


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