Licenziamenti di stato

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L’onda lunga della prossima abolizione dell’articolo 18 incombe anche sul pubblico impiego. La bomba scoppia all’ora di pranzo, quando il dipartimento della funzione pubblica dirama un avvertimento ai naviganti: «Le nuove norme sui licenziamenti senza giusta causa e senza giustificato motivo saranno applicate anche ai lavoratori pubblici poiché anche a loro si applica lo statuto dei lavoratori». 
La possibilità  di via libera a licenziamenti per motivi economici nel settore pubblico (al di là  della sua concreta attuazione: lo stato almeno formalmente per ora non è ancora un’azienda) è una valutazione che – a differenza di altre – preoccupa enormemente soprattutto la Cisl. Non a caso Raffaele Bonanni (che ieri mattina era quasi felice della riforma e duellava con la Cgil su Radioanch’io) nel pomeriggio è tra i primi a rispondere che no, il governo aveva assicurato che quella norma non sarà  estesa agli statali: «Mi ricordo che il ministro Fornero all’inizio della trattativa ha detto che il pubblico impiego non era coinvolto – dice Bonanni – saremmo contrari perché si è parlato del settore dell’industria e dei servizi». Al di là  delle promesse e dei timori, però, resta il fatto che il dipartimento della funzione pubblica in serata emette una seconda nota che smorza le preoccupazioni ma non cancella i dubbi: solo con il testo definitivo, si legge, «si potranno prendere in considerazione gli effetti che potrebbe avere sul settore pubblico». 
Come tutti sanno, in materie come questa il diavolo si annida nelle virgole. E un testo definitivo, è noto, ancora non c’è: né nel merito né nel metodo. 
Oggi pomeriggio l’ultimo round al ministero del Welfare. A parte il giallo sugli statali, sul tavolo non c’è un ripensamento dell’articolo 18 (Monti dixit) anche se le aziende chiedono da subito un indennizzo più basso rispetto a quello previsto. Restano però aperti molti problemi su cassa integrazione (abolizione di quella per cessazione attività  e aliquote per le pmi), mobilità  (transizione più lunga all’Aspi e quota di contributi aziendali necessaria) e taglio ai contratti precari (soprattutto su partite iva e cocopro). Dettagli che daranno il quadro reale della riforma. 
Della sua necessità , però, Giorgio Napolitano è sicuro: la riforma del mercato del lavoro «non può essere identificata con la sola modifica dell’articolo 18, per poter dare un giudizio bisogna vedere il quadro di insieme», dice pensando – indirettamente – soprattutto a Cgil e Pd. Un atteggiamento che in privato fa infuriare i democratici in difficoltà , anche perché il capo dello stato si guarda bene dallo sciogliere la riserva sul varo della riforma per decreto, per legge delega o per semplice disegno di legge governativo. Pdl e governo vorrebbero un decreto immediato, che il Pd invece teme come un paletto nel cuore. Mentre l’Udc sta alla finestra e Idv e Lega minacciano il «Vietnam parlamentare». Non è da escludere nemmeno un mix di questi strumenti legislativi. Va ricordato che finora il governo Monti ha agito solo per decreti legge.
In questo quadro di totale fibrillazione, è difficile o quasi impossibile evitare ricadute anche sul governo e sul Quirinale. Napolitano scarica altrove la decisione del metodo con cui varare la riforma: «Il governo decida la forma legislativa, poi la parola passerà  al parlamento». Parole formalmente ineccepibili ma che non tolgono le castagne dal fuoco a nessuno degli spiazzatissimi protagonisti. Le possibilità  di un decreto sono basse ma non escluse a priori né dal premier né dal Colle. Il calendario potrebbe dare una mano. La riforma o passa venerdì prima del viaggio di Monti per l’Asia (26 marzo-2 aprile) o si approva nell’ultimo consiglio dei ministri prima di pasqua. Se fosse il 6 aprile, venerdì santo, sarebbe la gioia dei titolisti. 
In attesa di un testo scritto e della sua forma, i due rami del parlamento sono già  in guerra tra loro per l’inizio concreto dell’esame. Il Pdl vorrebbe partire dal senato presieduto da Renato Schifani in modo da guidare il dibattito, il governo sarebbe orientato invece a scegliere la camera, dove siedono i vari segretari di partito e potrebbe poi chiudere la partita a Palazzo Madama senza troppi scossoni. Monti resta in silenzio e attende oggi la definizione delle norme da parte di Fornero. Incassa però sia la sintonia con il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone (visto ieri a pranzo insieme ai nuovi cardinali) sia il via libera dell’Europa. Del resto, Draghi e Trichet il 5 agosto scorso nella famosa lettera all’Italia chiedevano di adottare «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro». La professoressa Fornero i compiti li sta facendo.


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