Liste civiche, Quando i candidati locali contano più dei partiti

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È implicito, nel concetto di lista civica, che il rapporto fra politica e città  sia problematico. Quel rapporto dovrebbe essere di piena adeguazione – dopo tutto, le due parole sono l’una figlia dell’altra, poiché politica è l’insieme delle cose pubbliche che riguardano la città  –; e invece la lista civica si contrappone a liste elettorali non civiche, o almeno non percepite come tali. A liste che esprimono la disgiunzione fra politica e città . Com’è stato possibile ciò? E com’è possibile che una lista civica vi possa porre rimedio?
La politica moderna ha come dimensione più appropriata non la città  ma lo Stato; non il libero Comune ma l’intera società  civile nella sua vastità  e nelle sue interconnessioni. In ogni caso, lo spazio cittadino è uno spazio diverso da quello statale, nazionale; la differenza di scala comporta una differente qualità  della politica, che nella città  deve confrontarsi con problemi locali, e deve promuovere uno sviluppo e una qualità  della vita non necessariamente omogenei a quelli della nazione intera. Anche quando il livello locale è il laboratorio di proposte rivoluzionarie – come nei municipi “rossi” di inizio Novecento –, il “nuovo” vi si presenta con una capacità  amministrativa, con un’attitudine all’ascolto ravvicinato, con uno sguardo attento e concreto che ne muta le caratteristiche. Non a caso il socialismo che a livello nazionale era diviso tra massimalisti e riformisti, era poi operosamente riformatore nei municipi e nei territori.
Perfino il tempo delle ideologie ha dovuto prendere atto della differenza municipale, della particolarità  della dimensione civica. Nella rossa Bologna dal secondo dopoguerra, e fino al 2000 – oltre quindi la fine del Pci –, il “partitone” alle elezioni amministrative non si presentava nella forma politico-ideologica che assumeva alle elezioni politiche (appunto, come Pci, con tanto di falce e martello), ma col simbolo cittadino delle Due Torri: liste comuniste, ma aperte anche a personalità  indipendenti, aperte alla città , che raccoglievano più voti di quelli che la sinistra sommava alle politiche. Segno che la dimensione civica riusciva a superare anche le più aspre contrapposizioni ideologiche.
Ma quella ri-cucitura fra politica e città  non era alternativa ai partiti; anzi, questi si rivelavano capaci di saturare l’intera domanda di politica della società , in tutti i suoi ambiti e in tutti i suoi piani, offrendo “prodotti” diversi per pubblici diversi.
Quando, con la crisi della Prima repubblica, alla politica dei partiti si sostituì la politica spettacolo, tutta spostata sulla comunicazione e sul carisma del leader, questa politica, omogenea a livello nazionale, ha perduto la presa sui territori, che sono rimasti consegnati a gruppi locali, a clientele e a cricche ormai autoreferenziali, semplici anelli di cordate politico-affaristiche rispetto alle quali il brand politico nazionale era, ed è spesso tuttora, una copertura ideologica pubblicitaria, di pratiche sostanzialmente private, prive di respiro pubblico e civico. Non dalla forza della politica, ma dalla sua debolezza nascono le nuove liste civiche; la proposta dell’Italia delle “cento città ” – poi finita nel nulla – era la manifestazione di un bisogno di civismo, di una nuova stagione della politica che assumeva la dimensione municipale non come chiusura localistica ma come ricerca di concretezza al di là  della rissa mediatica, in nome di una partecipazione consapevole alla vita associata.
Oggi, in un tempo ancora diverso, nel tempo cioè della politica inefficace e delegittimata – che proprio sui territori mostra la sua collusione con l’affarismo e la faccenderia, e la sua inettitudine a risolvere i problemi che la crisi mondiale scarica sulle città  –, le liste civiche, che potrebbero essere le protagoniste delle prossime elezioni amministrative, sono certamente il segnale della disaffezione fra gli italiani e la politica dei partiti; ma, accanto a una componente qualunquistica e antipolitica – che fa parte molto più del problema che non della soluzione –, accanto a velleitarie chiusure localistiche, quasi che la città  potesse immunizzare dal mondo, accanto al rischio di frammentazione del tessuto nazionale, acquistano spesso anche il significato politico di una rivendicazione di autogoverno; come se, insomma, i cittadini presi dall’entusiasmo, o dalla disperazione, fossero spinti al volontariato civico, a rimboccarsi le maniche dall’urgenza di far fronte al degrado delle città  e al crollo della qualità  della vita. 
Certo, c’è la possibilità  che le liste civiche siano il palcoscenico per capetti carismatici locali, solo il veicolo di spregiudicati arrivismi, oppure non siano altro che operazioni più o meno credibili di camuffamento di ceti dirigenti locali logori e impresentabili; che improbabili candidature siano destinate a scontrarsi con la complessità  della politica e a venire manipolate da vecchi marpioni del mestiere. Eppure, oltre che il segno di una crisi dei partiti – che resta il problema principale della politica (di quella crisi è infatti parte integrante anche la corruzione) – le liste civiche sono il segnale che – dopo la politica astratta delle ideologie, dopo la politica virtuale della comunicazione, dopo la politica inerte della grande crisi che stiamo attraversando – c’è ancora chi vuole invertire il circolo vizioso grazie al quale il globale scarica tutte le contraddizioni sul locale, per fare della dimensione concreta dei territori il punto d’appoggio per riqualificare il rapporto col mondo vasto e terribile. Per far rinascere la politica da dove è nata: dalla città .


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