«Non si fa»

Loading

Se si intenda il “doppio Stato” non come una figura onnipervasiva capace di ingoiare e piegare a sé ogni ambito e ogni manifestazione della vita sociale e civile, ma come una condizione effettiva e influente dell’Italia nel contesto della guerra fredda e di un’eredità  dal regime fascista tutt’altro che regolata, e poi del labirinto di trame che hanno costellato lo scontro politico e sociale fino al colmo di violenza fra fine dei ’70 e inizio degli ’80, si capisce come una visione sospettosa allarmata esasperata e disperata abbia largamente occupato allora menti e animi. Però la constatazione non è esauriente, se si guardi a che cosa è successo poi. È come con le ideologie totalizzanti ed escludenti di una volta, cui si fa carico di aver nutrito e coltivato odio e violenza cieca: e però, tramontate le ideologie, ne è venuta largamente meno un genere di violenza, ma non hanno affatto ceduto odio e messe al bando, sicchè si è dovuto amaramente ammettere che le ideologie totali offrivano loro un eccellente pretesto, ma che l’odio e l’intolleranza sanno cercarsi i propri pretesti anche nei climi più diversi. E dunque la visione paranoica che immagina il governo del mondo come una cospirazione maligna e occulta di pochissimi, e avvisa la gente comune, l’immenso parco buoi della Borsa e della vita, che “tutto ciò che sapete è falso”, non ha mai avuto fortuna così sfrenata come nel mondo in cui la storia era finita e i grandi sistemi ideologici crollati. Per quanti complotti percorrano la terra, la mania del complotto li eclissa tutti. Ma c’è qualcosa in più, oggi, che soverchia le guerre di religione e gli scontri di civiltà  e gli arrembaggi della finanza internazionale, e che a tutto ciò imprime una veste uniforme: è la seduzione della fiction. Il film si intitola “Romanzo di una strage”, il libro che si vuole “di storia” vanta di somigliare a una “sceneggiatura”.

Questa mistificazione passa anche attraverso una stanchezza, una distrazione, una rimozione che appartengono a un larghissimo numero di “quelli che c’erano”. Anche l’effetto retroattivo del disgusto che li oppresse quando il magniloquente assalto al cielo della fine degli anni ’60 finiva nel sangue e nella compromissione. Non si aveva più voglia di ricordare com’era prima. Si diffidava del contesto, perché il contesto è troppo pronto a entrare a servizio delle autoassoluzioni. Ho avuto prove vistose di queste censure, e del resto le ho misurate anche su me stesso. Quando mi misi a scrivere su Pinelli, avevo dimenticato anch’io in quali circostanze era stato redatto il manifesto contro Calabresi con quella impressionante sequenza di firme illustri. E per anni, per decenni, le firme erano state rievocate e rinfacciate senza che mai una volta, rinfacciatori e rinfacciati, facessero la minima menzione di quelle circostanze – il modo della ricusazione di un presidente di tribunale quando il processo mostrava di volgere al peggio per il commissario Calabresi – che non giustificavano il manifesto, ma lo spiegavano. Lo vada a leggere, nel mio libro, chi davvero si chieda come poterono figurare in calce a quelle frasi le firme di Primo Levi e di Giorgio Amendola, di Norberto Bobbio e di Federico Fellini.

Al contesto non si può rinunciare. Il compito di chi cerca di ricostruire e interpretare la storia, è di immaginarsi di nuovo, per poco, nel punto in cui le cose non sono ancora successe, nel punto in cui possono ancora succedere diversamente, e guardarle da lì. Le cose, quando avvengono, tradiscono sempre le intenzioni: nel doppio senso del verbo tradire, che le deviano, e le svelano. La storia non può accontentarsi di processare i fatti compiuti, il processo alle intenzioni è anche affar suo: una parte dell’affar suo. Non è bene farsi forti dell’evidenza dei fatti compiuti per proiettarli a ritroso, far divenire inevitabile ciò che era solo possibile, e far passare per plausibili ipotesi avventate.

Dunque l’altra ragione, quella più immediata e forte, per cui ho scritto è di difendere la memoria di Pinelli e, allo stato degli atti, di Valpreda. Non perché siano “simboli” e intoccabili e sacri. Ma perché tutto ciò che ne sappiamo depone a favore della loro estraneità  alla strage. Tutto ciò che ne sappiamo, a condizione che ci impegniamo a saperlo – ciò che Cucchiarelli si è guardato dal fare, millantando credito come uno scolaro che imbroglia. Cucchiarelli ha fatto entrare Valpreda in una banca con una valigia di esplosivo: le ragioni che ha addotto sono infondate. Ha fatto precipitare Pinelli con una spinta dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo averlo dichiarato a parte del piano esplosivo. Non si fa.

Finisco di scrivere prima di sapere che accoglienza abbia incontrato il film presso il pubblico. Le reazioni delle “anteprime” sembravano risollevare questioni ereditate, e avevano una vivacità  un po’ di maniera. La mia reazione è inaffidabile, perché sono mediocre spettatore di cinema, e all’opposto troppo “informato dei fatti” per non osservare continuamente lo scarto fra le cose come andarono e come sono raccontate. Poiché il film non è un documentario, e la soluzione non sta nell’evocare la parola che metta d’accordo tutto, docufiction, è naturale che quello scarto ci sia. La storia nel suo insieme racconta una ampia vicenda di poteri, di armi usate nella lotta politica, di tipi e maschere umane nei diversi ruoli sociali. I personaggi, e gli episodi in cui figurano, raccontano invece le vicende particolari che sono diventate esemplari dentro quella storia d’insieme, le più laceranti. Nel loro caso, l’intervento della finzione condiziona in modo decisivo la comprensione di chi guarda. A una simile difficoltà  si può rispondere chiamando in scena un personaggio di fantasia, nemmeno importante, un passante, un cavallo alla battaglia di Waterloo, per guardare da lì alla mischia generale e ai generali e agli imperatori. Qui i personaggi privati sono anche protagonisti pubblici del dramma: Pinelli, Calabresi, e, a suo modo, ma un modo che lo rende loro fraterno, Aldo Moro. Personaggi di tragedia, di ognuno dei quali si sono scrutate mille volte frasi, espressioni, movimenti, azioni. Che le frasi e le azioni che compiono nel film corrispondano alla realtà , e fino a che punto, o se ne discostino per l’invenzione, e fino a che punto, cambierà  sostanzialmente la conoscenza e l’atteggiamento dello spettatore. Non se ne potrà  dire semplicemente: «È un film». Del resto, si fa fatica a dirlo anche dei film che non hanno a che fare con nessuna realtà , e si pretende che la frontiera sia diventata talmente sottile da finire con lo scomparire, perfino quando nel film ci sono due grandi torri che bruciano e rovinano, e persone vive che ne cadono giù nuotando nell’aria.

Sono molti i punti del film in cui succede. Pinelli viene interrogato su Sottosanti, ma in quello che sappiamo degli interrogatori di Pinelli questo non c’è, e si dice anzi che l’interrogatorio su Sottosanti avrebbe dovuto cominciare dopo la mezzanotte del volo. A Licia, nel film, Pino dice uscendo con Sottosanti: «Vado in banca a ritirare la tredicesima». Frase naturalissima, se non che in realtà  la tredicesima, ritirata non in una banca ma alla cassa della stazione di Porta Garibaldi, mentre alla banca di Pinelli è Sottosanti che va a riscuotere un assegno, è un pezzo essenziale della questione dell’alibi. Il perito Teonesto Cerri che dice: «Ho trovato un pezzo di miccia» e la sbandiera, risolve di netto una questione controversa come l’esistenza o no della miccia, secondo una concatenazione che nel film non è stringente, ma è tesa alla conclusione della bomba raddoppiata. Del dialogo fra Pinelli e Calabresi nella libreria Feltrinelli ho detto. Il fatto è che un film, a differenza di un libro, non è fatto per tenere nel dubbio quello che mostra, e lo può fare solo, nelle scene cruciali, decidendo di non mostrarlo se non indirettamente: come il tonfo della caduta di Pinelli sentito da Calabresi in un’altra stanza, che è un modo per dire con certezza che Calabresi non c’era, e per rinunciare, com’è giusto, a far vedere con certezza com’è andata.

Che io trovi sbagliato lo scioglimento del colloquio fra Calabresi e D’Amato lo dicono tutte le pagine che precedono. Calabresi racconta la convinzione che si è fatto – menti di destra e mani anarchiche, e due bombe, una di Valpreda, l’altra fascista, Sottosanti o un altro – e D’Amato contrappone al suo “romanzo” la propria favola, delle due cordate, delle due bombe, ambedue di destra, una fascista e l’altra pure, più o meno (la parte più oltranzista della Nato, servizi americani, ambasciata Usa, estremisti veneti, settori delle Forze armate) e lui, D’Amato, a coprire tutto… Bastava una bomba. C’erano le mene dei servizi atlantici e la complicità  e la connivenza dello Stato con quegli “estremisti”, veneti e non solo. Gli autori hanno obiettato che la tesi è riservata all’apologo di quella scena. In realtà  gli indizi che vi portano sono seminati lungo il film. Tuttavia quella conclusione non basta a inficiarne il racconto. Gli autori, non so fino a quando, ribadiscono di credere a quella ipotesi. Peccato: perché essa conferisce una gratuita assurdità  a uno svolgimento accertato.

Farei a Giordana l’obiezione che invece riguarda il suo film, e non la residua dipendenza da un libro sventato. Proprio quella conclusione che addensa attorno alla trama di una “guerra appena cominciata”, dal 12 dicembre all’uccisione di Calabresi, una tal adunata di potenze nere e occulte – la cosa che probabilmente resterà  più memorabile per i giovani che andranno a vedere il film – spiega lo stato d’animo dichiarato da Giordana, che “tutto passava sulle nostre teste”. Tutto quello che avvenne allora, tutto quello per cui la sua generazione pensò di battersi, fu giocato sopra la testa sua e della sua generazione da poteri troppo forti e ubiqui. Una piovra, diciamo. Io non sono d’accordo. Se fosse stato davvero così, se tutti, nelle fabbriche, nelle strade, nelle università , nelle galere, fossimo stati giocati da quell’onnipotenza tenebrosa, allora saremmo privati di tutto, anche dei nostri errori e delle nostre colpe. Il mio amico Mauro Rostagno andò a Trento, nel ventennale del ’68 e poco prima d’essere ammazzato. Ci andò e disse: «Meno male che abbiamo perso». Io sono d’accordo. Meno male che abbiamo perso. Però, Giordana, mi voglio tenere la coscienza di avere perso anche da solo, per mio conto, con le mie forze. Di non essere stato espropriato di tutto, anche della benedetta sconfitta, da quella tenebrosa cospirazione. E, per concludere, un’altra cosa. Giordana e i suoi coautori e attori si sono proposti, mi pare, di fare un film “monumentale”, alla lettera, di fare un’opera di memoria repubblicana. Non so se fosse un proposito appropriato, né se potesse riuscire. Verrebbe da dire che è troppo tardi, o troppo presto. Forse viene sempre da dire così. Ho cominciato la prima pagina dai 43 anni, e così finisco. 43 anni, l’età  media degli italiani del 2012. Non è vero che quella storia continua: è consumata, ed è bene che lo sia. I ventenni, è bene che la sappiano, ma non è e non sarà  più la loro.

Quando il presidente Napolitano – cui il film si è ispirato, direi – compì lui l’atto monumentale di ospitare insieme le famiglie di Calabresi e di Pinelli, e quando arrivò a nominare l’anarchico ferroviere, la sua voce si incrinò. Era il 2009. Fu inevitabile sentire e pensare molte cose: anche che ci sono lacrime trattenute per quarant’anni.


Related Articles

Le origini del male

Loading

«Parlare dei “caratteri nazionali” di un popolo significa parlare di tratti culturali che, costituitisi sullo sfondo di dati quadri storici, hanno contribuito a formare comportamenti che individui o gruppi hanno assunto di fronte a situazioni storicamente date»

Il Gandhi dell’islam fa ancora paura

Loading

Abdul Ghaffar Khan. Musulmano, pashtun, “integralista” della non violenza. Profilo del leader delle 100mila «camicie rosse» disarmate che volevano l’indipendenza del Raj britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e senza dividere l’India. Un simbolo allora nel mirino della polizia coloniale e adesso dei talebani

L’appello di «Se non ora quando» . «L’ora delle proposte»

Loading

Tornano in piazza le donne. Se il 13 febbraio era stata una prova generale di «cambiamento» , oggi e domani a Siena è il momento (dicono) della concretezza. A febbraio la chiamata a raccolta era sull’indignazione. Ora è sugli strumenti concreti per cambiare le regole.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment