L’unica condizione che produce il presente

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«Dio quando finirà  dunque il tempo della crisi mondiale e tornerà  nuovamente lo spirito della giustizia e dell’ordine!». A leggere la citazione, con cui terminava una petizione al presidente di una provincia prussiana nel 1814, potrebbe sembrare che non molto sia cambiato nella storia degli ultimi due secoli. La crisi come grande fase di disordine allargata a scenario globale, in cui esercitare un intervento salvifico. Giustizia e ordine come ciò che precede e ciò che ritorna oltre la crisi, e dunque come orizzonte di riferimento e di legittimazione per un’azione di governo che alla crisi si lega,che materializza aspettative e bisogni, concentra su di sésguardi scettici, organizza il disincanto. 
«Crisi» è concetto fondamentale del lessico politico e giuridico europeo. Ed è meritoria l’opera di edizione e traduzione italiana della voce che ad esso dedica Reinhart Koselleck nel grande Lessico dei Geschichtliche Grundbegriffe, impresa culturale estremamente rilevante della storiografia tedesca tra gli anni 70 e 90 del secolo scorso (Crisi. Per un lessico della modernità , introduzione di Gennaro Imbriano e Silvia Rodeschini, postfazione di Adelino Zanini, ombre corte, pp.108, euro 10). 
Dedicato ad una «storia dei concetti», il Lexicon dei concetti politici fondamentali della lingua tedesca è in realtà  un’opera di respiro europeo. Le voci che esso raccoglie non soltanto ambiscono a delinerare una cartografia generale della modernità  politica per mezzo dei suoi punti di riferimento concettuali, ma sviluppa nel contempo una teoria del processo di costituzione della modernità  stessa attraverso l’analisi delle modificazioni storiche dei suoi quadri semantico-categoriali. 
I concetti politici vengono assunti tanto come indicatori del mutamento storico, quanto come fattori, agenti materiali, di ciò che lo traina. Questo permette di ricostruire gli strati di senso in cui slittamenti, resistenze, accelerazioni, modificano il vocabolario politico, attestano passaggi significativi, trasposizioni di contesto, insistenze o innovazioni, e permette nello stesso tempo di delineare una teoria generale del processo di definizione e di consolidamento della contemporaneità  attraverso la perimetrazione dell’orizzonte generale di senso in cui circolano e funzionano i concetti del suo vocabolario politico. L’analisi storica dell’evoluzione di quest’ultimo serve a chiarire la quantità  di strati di significato in esso sedimentati e a rendere più lucida la consapevolezza di come esso viene oggi impiegato.
«Crisi» è dunque uno di questi concetti fondamentali. Koselleck ne fissa la semantica in quattro possibilità  caratteristiche. Prendendo a modello l’uso medico, politico o militare della parola, esso può riferirsi a sequenze di eventi che tendono ad un punto risolutivo. Secondo il modello teologico che ne impronta un’altra ricorrenza significativa, «crisi» può indicare la decisione storica ultima, dopo la quale la qualità  della storia stessa si trasforma radicalmente, attraversando una soglia irripetibile. Una terza accezione fa della «crisi» una categoria di durata o circostanziale: rinvia all’idea, cioè, di un processo all’interno del quale situazioni critiche si riproducono continuamente, oppure a situazioni in cui incombono decisioni multiple o alternative reciprocamente contraddittorie. E Infine «crisi» può alludere ad una trasformazione immanente alla storia, a un processo il cui esito, in meglio o in peggio, dipende dal modo in cui lo si osserva o lo si analizza. 
Tutte e quattro queste modalità  fanno riferimento a quello che Koselleck chiama «il tentativo tangibile di conquistare una possibilità  espressiva specificatamente temporale», adeguata all’orizzonte di mobilità  della storia, per scandagliare quest’ultimo a differenti livelli di profondità  considerato il fatto che esso, aperto su di un futuro incerto, lascia spazio libero a tutti i desideri e a tutte le ansie, a tutte le paure e a tutte le speranze. 
Da questo punto di vista estremamente generale, e tuttavia fondato sulle caratteristiche specifiche dell’esperienza moderna a partire da quella che, in altro contesto, Koselleck chiama il dilatarsi della forbice tra «spazio di esperienza» ed «orizzonte di aspettativa». La «crisi» diventa cioè un tratto distintivo dell’epoca moderna sino a tendere coll’identificarsi con essa.
La modernità  è la crisi, dunque. Non solo perché nella modernità  viene esautorata l’immediata ed indiscussa legittimità  di una politica innestata alla tradizione (la politica stessa deve infatti conquistarsi i propri titoli di legittimità  esponendosi alla crisi, provando a governarla, mettendosi a rischio), ma anche perché l’accelerazione dell’esperienza che definisce l’epoca moderna tende a mettere velocemente fuori corso paradigmi e formule di intervento, quadri categoriali, riferimenti accreditati. E non solo: a partire dal XIX secolo, ed in particolare a partire dalla crisi di borsa del 1825, l’uso del termine acquisisce sempre di più connotazioni economiche, radicandosi sul terreno della conflittualità  sociale secondo l’ambivalenza che della crisi fa di volta in volta la soglia di un passaggio definitivo ed irrevocabile o un evento puntuale sul quale ci si sfida. «Fisicamente la crisi mi farà  bene come un bagno di mare», potrà  scrivere nel 1857 Engels in una celebre lettera a Marx.
Complessivamente, Koselleck associa al concetto di crisi tre diversi modelli interpretativi. Nel primo, la storia è interpretata come crisi permanente e il concetto adoperato in modo processuale. Nel secondo, crisi designa un punto di radicalizzazione, che innesca una svolta decisiva, generando un nuovo scenario. Il terzo è un modello, a forte desinenza teologica, escatologico-utopistico, volto a definire una crisi in atto, come l’ultima e definitiva. Probabilmente Koselleck è a quest’ultima che ascriverebbe lo stesso marxismo o il movimento comunista internazionale. 
Tutti e tre questi modelli, è inutile ricordarlo, tornano nell’uso che del concetto di crisi fanno intellettuali e politici per interpretare la crisi finanziaria globale. Ed è fin troppo semplice sottolineare come il libro di cui parlo possa essere utile per disaggregarne aspetti retorici, limiti evidenti, troppo scontate rispondenze. 
Ma non solo. Koselleck fa notare come il concetto di «crisi» abbia progressivamente sostituito nel lessico della scienza politica quello di conflitto. Ciò è evidente nel caso delle relazioni internazionali, ad esempio .
E tuttavia, nel suo etimo krà­sis rinvia al verbo greco krà­no: «separare», «dividere», «scegliere», «giudicare», «decidere». Ma anche: «misurarsi», «litigare», «lottare». Il momento cruciale della «crisi» è non solo il momento della «decisione», ma quello della «lotta». E in un orizzonte di crisi come quello che attraversiamo – varrebbe la pena di sottolinearlo come richiamo al principio di realtà : è il capitale in sé ad essere crisi e quell’orizzonte non si dischiude certo ora – questo strato profondo, matriciale, della semantica del concetto è utile venga richiamato per posizionarci all’interno del campo di tensione che lo segna.


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