«Vadano in carcere» Ma i marò evitano di finire in una cella

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KOLLAM — Solo a notte fonda i marò evitano la cella, già  pronta, del carcere di Trivandrum. Ancora all’una il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura affronta il direttore del «penitenziario centrale»: «Io non me ne vado da qui fino a quando non si trova una sistemazione appropriata per i nostri militari. È inaccettabile che siano custoditi in un carcere insieme con detenuti comuni». Sono ore di anticamera e di grande tensione, con il rappresentante del governo italiano che ordina platealmente a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone di non muoversi dalla sala d’aspetto. Il caso dei marò rischia di diventare un incidente diplomatico di quelli seri, capaci di guastare relazioni finora serene come lo sono tra Italia e India. 
Chiuso nel suo ufficio il direttore si rigira tra le mani l’ordinanza emessa nel pomeriggio dal tribunale di Kollam: i sottufficiali del Reggimento San Marco sono «sottoposti a 15 giorni di custodia cautelare», affidati all’autorità  della prigione centrale di Trivandrum (la capitale dello Stato del Kerala). Ma il documento precisa che la «stessa autorità » potrà  decidere dove collocare i due detenuti, consentendo «il pieno accesso del corpo diplomatico» e, garantendo anche «la dieta appropriata» (a spese degli ospiti, naturalmente).
Alla fine si trova un accordo su una soluzione forse provvisoria: i due marò saranno alloggiati in una palazzina indipendente, ma sempre all’interno del carcere. Potranno restare in divisa e usare il telefono. Già  oggi la diplomazia italiana riprenderà  le pressioni per riportare i due militari nel «Police club» di Kollam, ultima residenza prima del trasferimento a Trivandrum. Per i due sottufficiali del San Marco, comunque, si apre una fase «lunga e complicata», come aveva detto, salutandoli sabato scorso, lo stesso de Mistura.
Ieri alle 16.30, dopo 40 minuti di dibattimento e altrettanti di meditazione solitaria, il presidente del Tribunale di Kollam aveva stabilito che i militari italiani fossero «consegnati al carcere» di Trivandrum. 
Arrivati a questo punto, sul piano strettamente processuale, non c’erano molte altre soluzioni. I soldati italiani sono accusati di aver ucciso i pescatori Valentine Jelastine e Ajeesh Binki, il 15 febbraio, sparando dalla plancia della petroliera Enrica Lexie. Su disposizione della magistratura la polizia li ha tenuti «in custodia» dal 20 febbraio fino a ieri, ospitandoli prima in una foresteria di Kochi e poi nel «Police club» di Kollam. Secondo il codice di procedura penale indiano il «fermo» non può durare più di 15 giorni, dopo di che il giudice deve decidere se liberare gli indagati o «sottoporli» a carcerazione preventiva. Le indagini sono in pieno corso, anzi a voler essere precisi, sono appena cominciate. Stando così le cose era facile prevedere come si sarebbe orientato il tribunale di Kollam. I legali indiani dello studio Titus di New Delhi, in rappresentanza del governo di Roma, hanno cercato di contenere il danno, facendo leva sostanzialmente su due argomenti. Primo: davanti all’Alta corte del Kerala, a Kochi, si sta discutendo la petizione presentata dallo Stato italiano che rivendica la giurisdizione sul caso, poiché l’incidente è avvenuto a 22 miglia nautiche dalla costa, quindi in acque internazionali. Secondo argomento: la sicurezza. Gli avvocati hanno citato la campagna di stampa che ha già  condannato senza appello i marò. L’offensiva aveva convinto la Corte ad attenuare l’ordinanza. Ma in questa vicenda le sorprese sembrano non finire mai.


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