Nothomb, se un figlio non riconosce il padre

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È questo l’escamotage usato dalla scrittrice belga per presentarsi ai lettori, nell’incipit del suo nuovo breve romanzo, Uccidere il padre (Voland, traduzione di Monica Capuani, pp. 91, euro 9). «Indossare un grande cappello in un locale per maghi non garantiva certo l’incognito. Non volevo spiare quelli che mostravano i loro trucchi». Ed è proprio nel locale dei maghi, nel quale l’autrice si presenta, che inizia il racconto a ritroso della vicenda. Travestirsi da se stessa, essendo da anni l’autrice una star letteraria internazionale (sarà  tra l’altro oggi pomeriggio alla Libreria Feltrinelli di Verona all’interno del Festival di narrativa francese, in corso fino al 9 marzo in diverse città  italiane), è un chiaro messaggio. La scrittura è come una magia di cui non è opportuno mostrare i trucchi, ma il patto di lealtà  che lega l’autrice ai suoi lettori non può essere eluso. 
Ecco dunque il gioco degli specchi, nel quale pretesti narrativi e pulsioni primordiali si riflettono a vicenda, trascinando un’esile trama tirata come una corda che sembra sempre sul punto di spezzarsi – e quando la rottura pare inevitabile, arriva il colpo di genio che ricuce il filo. «”Lo scopo della magia è indurre l’altro a dubitare della realtà “. Joe annuì. “Quindi – proseguì Norman – la magia è per l’altro, non per sé”». E anche il rapporto padre-figlio contenuto nel titolo è interpretato in maniera imprevedibile – nonostante vengano rappresentati molti degli stereotipi di un Edipo freudiano. La Nothomb allontana gli equivoci: «Non ho alcuna cultura psicoanalitica. E tuttavia gli psicoanalisti che hanno letto i miei libri mi hanno detto che essi non sono in contraddizione con la mia scrittura». 
La storia di due maghi, un quindicenne e il suo patrigno, e del conflitto filiale che turba il primo è l’ennesima maschera della dolorosa adolescenza dell’autrice, della quale i lettori abituali conoscono ogni dettaglio. La Nothomb ha raccontato di essere stata un’adolescente anoressica e depressa («mi chiedevo se sarei sopravvissuta») e di aver trovato una via di fuga nella scrittura. «I miei genitori non vedevano fino a che punto stessi male. Loro non l’hanno mai saputo. Hanno letto i miei libri, anche quelli autobiografici, ma non li hanno mai compresi. Non è grave, non si scrive per i propri genitori».
Joe Whip, è un quindicenne cresciuto con una madre trentacinquenne bella e squilibrata, la cui aspirazione principale è trovare un uomo che non l’abbandoni dopo una settimana. Il ragazzo non ha mai conosciuto il vero padre perché sua madre non sa neppure chi sia. Dall’età  di otto anni si dedica in modo compulsivo all’apprendimento di trucchi con le carte da gioco: è questa per lui, rinchiuso nella sua cameretta, l’unica ragione di vita. A quindici anni la madre lo mette alla porta costringendolo a una vita randagia nei bar della città , dove si guadagna da vivere sfruttando la sua abilità  con le carte. Un giorno, su consiglio di un uomo che si accorge di questo dono, si reca da Terence Norman, un famoso mago il quale, inizialmente diffidente, lo invita a stabilirsi con lui e sua moglie Christina, una bellissima venticinquenne ex hippy, nel frattempo diventata «danzatrice di fuoco»: «In questo caso l’inglese prevale sul francese: fire dancer è incomparabilmente migliore di danseur de feu. Ha ragione l’inglese, bisogna scagliare le due parole una contro l’altra». Dopo qualche tempo Christina e Norman cominciano a considerare come un figlio Joe, che invece sviluppa una gelosia e poi un vero odio verso il padre adottivo, il grande mago realizzato e rispettoso delle regole. Al tempo stesso, il ragazzo si innamora di Christina e la desidera sessualmente. A corroborare la trama a tratti fin troppo essenziale, interviene come al solito la grana abile e efficace della scrittura: «”Mi adora come un moccioso di quindici anni adora suo padre. Quindi mi vuole uccidere”. “E tu lo consideri un figlio?” “In un certo senso sì. Lo ammiro e gli voglio molto bene. Quando parto, mi manca. Quando torno, mi dà  sui nervi e mi esaspera”. “Hai paura di lui”. “No. Ho paura per lui”. “Allora è tuo figlio”». 
Dove sono finiti i padri? Se lo chiedono molti testi contemporanei, il cinema di Clint Eastwood, La strada di Cormac McCarthy, Nemesi di Philip Roth, Tree of life di Terrence Malick. I padri sembrano scomparsi oppure si sono trasformati in compagni di giochi dei loro figli. In Cosa resta del padre? Massimo Recalcati ha segnalato questo disagio, evocando la figura di Telemaco come interprete di questa nuova condizione. Telemaco contro Edipo. Se il complesso edipico si insedia nel conflitto tra generazioni, «il complesso di Telemaco» definisce la speranza dei figli che possa tornare sulla scena una figura paterna. Con i suoi occhi guarda il mare, scruta l’ orizzonte, in attesa che la nave del padre ritorni per restituirgli un nome, per trasmettergli – come nel romanzo di McCarthy – «il fuoco» che a questo nome attribuirebbe un senso. Ma la domanda di padre, ammoniva Nietzsche, non è priva di insidie, come quella di coltivare una attesa infinita e disperata di qualcuno che non arriverà  mai. 
Il finale di Uccidere il padre tuttavia è spiazzante. Cosa è davvero il padre per il giovane Joe? Null’altro che il primo uomo che lo ha scelto. «Pensi che si comporti come un padre nei tuoi confronti?» chiede Norman, il padre adottivo, in una drammatica resa dei conti. Spietata la risposta del giovane: «Ha fatto il necessario al momento opportuno. Mi ha fondato». Con acume, l’autrice ribalta il nuovo diffuso senso comune sulla scomparsa del padre, evidenziando la taciuta ma altrettanto diffusa angoscia dei padri che non vengono più riconosciuti come tali dai figli. Nelle righe finali la confessione di Norman all’Amélie Nothomb travestita da se stessa, che abbiamo incontrato nell’incipit, recita così: «I figli che non vengono riconosciuti dal proprio padre ne soffrono. Ma esiste una sofferenza più grande: quella di un padre che non viene riconosciuto dal proprio figlio».


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