Pakistan: la parità  di genere entra nei media

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Consapevoli dell’importanza del ruolo che l’informazione gioca nel consolidare o nel cambiare i valori e i comportamenti delle persone, gli attivisti si sono posti l’obiettivo di far riflettere i giornalisti del paese sulla condizione femminile e su come, adottando accorgimenti di stile e contenuto, possano contribuire alla delegittimazione della violenza di genere. Un fenomeno endemico nella Repubblica Islamica, che è al terzo posto tra i paesi più pericolosi per le donne e al primo per chi fa il mestiere del giornalista.

Stando al rapporto dell’Aurat Foundation si registrano 8 mila casi di violenza sulle donne ogni anno, le vittime di omicidio, delitto d’onore e suicidio sono 2600, mentre gli stupri, individuali e di gruppo, superano i 900 casi. Inoltre, l’Asian Human Rights Commission riporta che il 90% della popolazione femminile subisce qualche forma di violenza domestica, fisica, verbale o psicologica. Tra gli atti di violenza più diffusi vanno ricordati i matrimoni forzati e la crudele usanza di sfigurare il volto con l’acido, raccontata da Daniel Junge e Sharmeen Obaid-Chinoy in “Saving Face”, documentario breve vincitore dell’Oscar 2012. Colpire con l’acido è da poco diventato un reato, per il quale la legge introdotta lo scorso dicembre, insieme a un altro storico provvedimento sui comportamenti lesivi per la donna, prevede pene pecuniarie e la reclusione dai 14 anni all’ergastolo. A scatenare simili crudeltà  sono i motivi più vari: un presunto adulterio, una dote considerata troppo scarsa, l’insistenza nel voler sposare l’uomo amato anziché quello scelto dai parenti secondo logiche tribali o la “colpa” di essere state stuprate e avere in questo modo disonorato la famiglia. Alla base di questi motivi sta il fatto che la donna è considerata come un individuo di classe B. Un’immagine alimentata anche dai media, che la raffigura come una casalinga, un soggetto debole, economicamente dipendente dall’uomo, che per meritare un posto di rispetto nella società  deve trovarsi un marito, anziché pensare alla carriera. Il dono del pensiero sembra rimanere prerogativa maschile, mentre la donna è presentata come un oggetto da consumare. E se è su un oggetto, anziché su un essere umano, che la violenza si scaglia, allora il gesto suscita meno indignazione.

Anche sul fronte della professione giornalistica, le donne si trovano discriminate, nonostante nel mondo on-line si stiano aprendo nuove opportunità  e il numero di studentesse nei corsi di comunicazione sia in crescita. L’anno scorso, il sindacato dei giornalisti ha constatato che le molestie sessuali e la discriminazione retributiva asfavore delle operatrici dell’informazione sono questioni sempre più preoccupanti e che le aziende non si sono ancora dotate di politiche di genere.

Negli ultimi mesi, il Fiocco Bianco ha organizzato consultazioni con organizzazioni della società  civile e corsi di formazione per oltre duecento giornalisti a Lahore, Karachi, Islamabad e Peshawar. Ne è emersa una diffusa convinzione sulla necessità  di introdurre un codice etico che tuteli la privacy della donna, fornisca indicazioni per una rappresentazione non stereotipata che valorizzi il ruolo della donna nella società  e che raccomandi un’equa presenza femminile nei media a tutti i livelli.

«Il codice, spiega Omer Aftab, coordinatore nazionale della Campagna, è stato elaborato dopo aver intervistato 280 giornalisti e attraverso un processo di consultazione con 150 operatori dell’informazione, gruppi di donne e attivisti». La carta si rivolge sia a chi produce contenuti sia a chi ricopre ruoli decisionali, fornendo un elenco di suggerimenti suddivisi in sei paragrafi (principi generali, lenti di genere nelle notizie, responsabilità  e imparzialità , stereotipi, violenza di genere, rafforzamento delle competenze e promozioni sul posto di lavoro). Stando alle indicazioni, è buona pratica costruire un reportage ascoltando fonti sia maschili sia femminili, dare visibilità  ai vari ruoli ricoperti da donne e uomini all’interno della società  e mettere in risalto il loro potere decisionale condiviso sull’amministrazione della famiglia. Inoltre, tra gli altri accorgimenti, il documento raccomanda che l’identità  della vittima di violenza sessuale non sia rivelata senza il consenso della vittima stessa e incoraggia le redazioni ad adottare politiche antimolestie.

A sottoscrivere il codice, in occasione del suo lancio l’8 marzo, sono stati oltre cento tra singoli giornalisti e testate, tra cui il vice direttore del Gruppo Nawa-i-Waqt e il presidente dei quotidiani del Gruppo Ibrat. Nonostante il risultato incoraggiante, la partita degli attivisti contro un’informazione distorta e una società  maschilista che giustifica la violenza sulla donna, è ancora tutta da giocare. Per vincere la sfida non basta un pezzo di carta, bensì sono necessarie una costante azione di convincimento su dirigenti e sessioni di formazione e orientamento per giornalisti e giornaliste. Attività  che il Fiocco Bianco ha già  previsto in agenda.


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