PIà™ TEDESCHI DELLA MERKEL

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 Un decreto, infatti, avrebbe posto quest’ultimo dinanzi a un fatto compiuto: certo sempre emendabile e però temporaneamente vigente a tutti gli effetti.
Data l’incandescenza politica e sociale della materia la via decretizia avrebbe soltanto versato improvvida benzina sul fuoco.
Anche perché sarebbe stato acrobatico il tentativo di provare che una simile riforma obbediva a quei criteri di straordinaria necessità  ed urgenza che la Costituzione prescrive per i provvedimenti di immediata esecutività . E probabilmente proprio questo è stato l’argomento risolutivo messo in campo dal Quirinale nella sua infaticabile opera di pedagogia politica verso il governo dei tecnici. Ci si muoverà , quindi, nel solco della normalità  dei processi legislativi come è bene che accada per un provvedimento dall’ampio respiro le cui norme ridisegnano il campo dei diritti e dei doveri nel mondo del lavoro.
Quanto alla formula del “salvo intese” essa rappresenta una novità  di cui non si fatica a cogliere il fine immediato di non chiudere la porta a mediazioni che possano allargare la base dei consensi soprattutto con le parti sociali. E perciò il vero tenore di questo spiraglio potrà  essere verificato nei fatti soltanto nel corso dell’esame parlamentare del disegno di legge. In particolare, sul punto diventato più critico di tutto il provvedimento: la riscrittura del fatidico articolo 18 sui licenziamenti individuali. In proposito il passaggio che sta più di altri al centro delle polemiche è quello che riguarda l’espulsione del lavoratore per motivi economici da parte delle aziende. Le ragioni del dissenso sindacale – dapprima della sola Cgil ma poi rapidamente condiviso anche dai lavoratori delle altre maggiori confederazioni – sono principalmente due.
La prima riguarda il rischio che la generica indicazione di “motivi economici” per licenziamenti – si badi bene – individuali possa spalancare le porte a una quantità  di facili abusi da parte delle imprese. Ci si vuol liberare di un dipendente? Basta sopprimerne la funzione nell’organigramma e il gioco è fatto anche da parte di aziende in floride condizioni. A quanto pare il governo stesso sarebbe consapevole di questi rischi di strumentalità .
Ha dichiarato, infatti, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, di aver ricevuto precise rassicurazioni dallo stesso premier che la nuova normativa prevederà  maglie assai strette per scoraggiare indebite furbizie in materia.
Quanto strette ed efficaci sarà  utile che lo verifichi anche il Parlamento.
L’attenzione maggiore è però concentrata sul secondo punto critico dei licenziamenti individuali per motivi economici. Qualora il giudice investito della questione ritenga illegittima la decisione dell’azienda, esso potrà  imporle di pagare un indennizzo al dipendente ma non più ordinarne il reintegro nel posto di lavoro.
La novità  è di una straordinaria delicatezza perché essa incide profondamente sugli equilibri dei diritti fra datori e prestatori d’opera. In un paese, che è ormai rituale additare come luminoso esempio di lungimiranza economico-sociale quale la Germania, la regola è che sia lasciata all’imparzialità  del giudice la scelta fra l’indennizzo o il reintegro del lavoratore vessato.
Fino a un certo punto dei negoziati di Palazzo Chigi sembrava che anche il governo Monti fosse orientato per questa formula tedesca.
Poi è accaduto qualcosa di ancora non chiaro. Una volta che anche la leader della Cgil, Susanna Camusso, ha fatto un passo in avanti verso l’accettazione del modello Germania, inaspettatamente è stato il governo a farne uno indietro: indennizzo sì, reintegro no. Come ora confermato nel testo finale della riforma approvato ieri in Consiglio dei ministri. Un irrigidimento non certo spiegabile con l’esigenza di essere più teutonici dei tedeschi dinanzi all’Europa: quest’ultima nulla certo avrebbe potuto eccepire se si fosse semplicemente copiato il modello di Berlino.
Sarà  questo, dunque, il nodo cruciale sul quale si giocherà  la sorte parlamentare della riforma perché è scontato che su questo punto pioveranno emendamenti da più parti. E non sarà  facile per il governo spiegare il senso di un’operazione che, a prima vista, ha più sapore di mossa politica che di neutralità  tecnica. Chiedere ai lavoratori di abbassare la cresta per «stimolare la crescita» rischia di essere esercizio vano se si aiutano gli imprenditori a investire in licenziamenti.


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