Prendersi cura del mondo, “Le piccole buone azioni del nuovo radicalismo”

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E se fossero proprio i radicali, a dispetto dell’etichetta che li inchioda, i fautori di una vita individuale e collettiva più sobria, più misurata, più moderata? E i moderati, invece, i sostenitori di un ordine economico e sociale votato alla competizione, all’eccesso, all’estremismo? È il doppio quesito che corre lungo le centosettanta pagine di Elogio della radicalità , un saggio dello storico Piero Bevilacqua che propone di ribaltare una questione partendo dal nome delle cose e arrivando alle cose stesse. E che si offre come una riflessione per molti aspetti spiazzante sulle cause profonde della crisi, «anche se il vero volto di certo capitalismo l’abbiamo visto a prescindere dalla crisi», dice lo studioso che da tempo indaga gli effetti sull’ambiente, i paesaggi e le risorse naturali di scelte politiche ed economiche. 
L’elogio della radicalità  come l’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam?
«Erasmo contrapponeva un modo di pensare ragionevole, fondato sul buon senso al dottrinarismo astratto. Nel nostro tempo il dottrinarismo astratto pretende che il mercato aggiusti da sé ogni cosa e che compito della politica sia di oliare la macchina». 
E i moderati, lei dice, sostengono questo assetto?
«Assumono i rapporti di forza esistenti come un dato di realtà  immodificabile. Ma che cosa c’è di moderato nella pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più intense dai dipendenti, i quali sono sempre più precarizzati? E che cosa nella spinta a un consumo senza limiti, pur che sia, che divora risorse e che porta dissesti nei complicati equilibri del pianeta?»
E sarebbe questo il vero estremismo? 
«È estremista l’ideologia di una società  fondata sulla competizione ossessiva. Noi abbiamo conosciuto la torsione berlusconiana del moderatismo, che era estremismo allo stato puro. E non parlo dei comportamenti sessuali, ma dello stravolgimento di ogni regola istituzionale». 
E il radicalismo, invece? 
«Chi viene definito radicale ha una prospettiva rovesciata. Propugna la riduzione degli sprechi, individuali e collettivi. Combatte la bulimia distruttiva di risorse, la mortificazione dell’operosità  ridotta a merce. Insomma valori che recuperano la base etimologica del moderatismo, il latino modus, misura». 
È la decrescita teorizzata da Serge Latouche, che tante polemiche solleva.
«Non credo molto nella praticabilità  politica di alcune tesi di Latouche. Ma del suo messaggio mi convincono il rifiuto del consumismo compulsivo e di una crescita illimitata che sperpera suolo, natura, biodiversità , cioè i patrimoni su cui è vissuta l’umanità . Quello di Latouche è comunque un linguaggio moderato». 
Lei sostiene che questo capitalismo avrebbe perso capacità  egemonica. 
«Il capitalismo è il primo sistema economico portatore di egemonia, non solo di dominio. Cattura consenso, dicevano già  Marx ed Engels. Ma ora cedono entrambi i pilastri su cui si è retta questa abilità , la stessa che gli ha consentito di vincere il comunismo alla fine del XX secolo. E cioè la capacità  di produrre ricchezza come nessun altro sistema nella storia umana, una capacità  smentita ancor prima della crisi: sono aumentate le disuguaglianze, la ricchezza è nelle mani di sempre meno persone e nel 2000 nei paesi Ocse c’erano 35 milioni di disoccupati, senza contare i precari».
E il secondo pilastro? 
«La liberazione dell’uomo, trasformata in un individualismo patologico. Zygmunt Bauman e schiere di filosofi denunciano l’infelicità  prodotta dalla malattia esistenziale di uomini e donne spinti a fare da sé, a scollarsi dalla società . Ormai dilaga la letteratura medica sui malesseri che affliggono i ceti alti, prodotti da frustrazione e da assorbimento totale nel proprio ruolo lavorativo. All’inverso si camuffa la precarietà  con la creatività , provocando lo sbriciolamento dell’identità  individuale. Storicamente il capitalismo ha sempre promesso un miglioramento costante della condizione umana, attraverso sia il lavoro, sia il progressivo accorciamento dei suoi tempi. Ora entrambi vengono negati. E con essi ogni promessa di felicità , il che non produce più consenso». 
È una crisi di sistema, dunque?
«La crisi dell’egemonia, non è la crisi del dominio. Si comanda, ma senza consenso, promuovendo anche forzature nelle regole democratiche». 
Lei dedica un capitolo a grandi opere e piccole opere. Estremiste le prime, moderate le seconde?
«Chiunque studi le grandi opere del passato riconosce l’ammirevole sforzo di infrastrutturare un paese moderno e industriale. Tuttavia: quand’è che finisce l’infrastrutturazione massiccia di un paese? Per questo capitalismo, mai. Le grandi opere sono uno dei modi in cui esso funziona. Si cercano aree da utilizzare per profitti a prescindere da altre valutazioni». 
Lei è contro la Tav?
«Non ci possiamo permettere una gigantesca opera che concentra enormi capitali e lavoro in un piccolo pezzo d’Italia mentre poco si destina per riparare il nostro territorio nel suo complesso, unico per fragilità  e debolezza strutturale, un territorio completamente rifatto nei secoli». 
Che cosa vuol dire rifatto?
«La pianura padana è opera dell’ingegneria umana, dalle bonifiche dei benedettini nel medioevo a quelle degli Stati regionali e dello Stato unitario. Gran parte del ferrarese è tenuta asciutta dalle macchine idrovore. E le opere d’artificio necessitano di cure costanti. Eppure la pianura padana è una delle parti più stabili del paese, nonostante le minacce del Po e l’intensità  del costruito, se paragonata ai versanti montuosi, dalla Liguria alla Sicilia. Possiamo veder franare tutto questo territorio oltre quel che è già  franato? Un tempo i contadini controllavano le acque, curavano scoli e rogge, rimboschivano. Ora i terreni sono abbandonati. Il 66 per cento della popolazione è insediata nelle fasce costiere. E il cemento sottrae suolo all’assorbimento di piogge sempre più intense e concentrate su porzioni limitate di territorio». 
E che cosa c’entra questo con la Tav?
«La Tav non è una priorità . Una manutenzione costante e diffusa mette in sicurezza il paese e crea sviluppo nelle aree interne soggette all’abbandono: attività  forestali, pescicoltura, allevamento di selvaggina, agricoltura che valorizzi biodiversità , agricoltura non solo per produrre, ma per la ricreazione, l’assistenza sociale. Spesa pubblica è quella per la Tav spesa pubblica anche questa, che però alimenta iniziativa privata». 
Esiste una tradizione italiana in questo genere di opere?
«Basterebbe ricordare la secolare opera di ingegneria idraulica volta a conservare l’equilibrio della laguna di Venezia. Ma una eccellente lezione viene dalle cosiddette bonifiche integrali, elaborate negli anni Venti del Novecento da Arrigo Serpieri e da altri. Si prosciugavano i pantani e si costruivano i villaggi, le strade, si dava la terra ai contadini e li si istruiva. Le singole opere non resistevano, bisognava realizzare comunità ».


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